Dalla sentenza di Bologna sul femminicidio con riferimento alla “soverchiante tempesta emotiva e passionale”, alle motivazioni delle sentenze di Ancona, Genova e quante altre ancora
Una riflessione delle avvocate dei Centri Antiviolenza D.i.Re
Si è appena placata l’eco mediatica sulla sentenza della Corte di Assise di appello di Bologna con cui nel caso del femminicidio di Olga Matei, la pena inflitta in primo grado di 30 anni di reclusione è stata ridotta, per l’effetto della concessione delle attenuanti generiche considerate equivalenti alla contestata aggravante, a 16 anni, e vorremmo esprime alcune riflessioni.
Anzitutto riscontriamo con soddisfazione l’attenzione anche dei media al tema. Fino a pochi anni fa una sentenza del genere (e sentenze gravemente inficiate da pregiudizi ci sono sempre state) non avrebbe generato notizie e commenti: le cose stanno cambiando e anche la sensibilità culturale si sta modificando.
Vorremmo però che una tale sensibilità non prendesse strade sbagliate o non si prestasse a commenti e politiche securitarie e/o giustizialiste, che MAI fanno il bene delle donne.
È quindi importante che non si sposti l’attenzione da ciò che ha urtato le nostre associazioni di donne che si occupano di violenza di genere: il substrato culturale che è riprodotto nella sentenza. La giustificazione di condotte, reazioni e condizioni che altro non sono che giustificazioni culturali della violenza.
Cos’è quindi questo riferimento alla “soverchiante tempesta emotiva e passionale” di cui tanto si è parlato? Il riferimento è alla gelosia e alla sua rilevanza nel procedimento penale di attribuzione di responsabilità e modulazione della pena.
Anzitutto va detto che la sentenza della Corte di Assiste di Appello di Bologna, riconosce la sussistenza dell’aggravante dell’aver agito per motivi abbietti e futili e così ne dà conto: “Dunque, anche ammesso che l’azione omicidiaria sia stata cagionata da un moto di gelosia, si trattò comunque di uno stato d’animo improvviso e passeggero, privo di alcun fondamento e, soprattutto, non determinato da un profondo attaccamento per una donna con la quale vi erano seri progetti di vita. In realtà essa fu l’espressione di un intento meramente punitivo nei confronti di una donna che si mostrava poco sensibile per le sue fragilità e che – con tale atteggiamento – gli lasciava immaginare di potersi stancare della relazione e di decidere di lasciarlo”.
Con questo passaggio la sentenza RICONOSCE l’aggravante dei futili motivi, che è quella che in primo grado ha fondato la pena dell’ergastolo e portato quindi la pena a 30 anni di reclusione per l’effetto della riduzione della stessa con il rito abbreviato.
Come sono arrivati quindi a mitigare la pena fino ai finali 16 anni di reclusione?
Questo alla fine il punto nodale. Cosa può mitigare il trattamento sanzionatorio di un’azione così brutale ed “espressione di intento meramente punitivo nei confronti di una donna”?
La Corte decide di concedere le attenuanti generiche per mitigare la pena, valorizzando: la confessione, il tentativo di iniziare a risarcire la vittima e “sebbene quel sentimento fosse certamente immotivato e inidoneo a inficiare la capacità di autodeterminazione dell’imputato, tuttavia esso determinò in lui, a causa delle sue poco felici esperienze di vita, quella che efficacemente il perito descrisse come ‘una soverchiante tempesta emotiva e passionale’, che in effetti si manifestò subito dopo anche con il teatrale tentativo di suicidio: si tratta di una condizione che appare idonea a influire sulla misura della responsabilità penale”.
È a quel sentimento, la gelosia, che la Corte fa riferimento, lo stesso che porta al riconoscimento dell’aggravante dei motivi abbietti e futili, è poi utilizzato per mitigare la responsabilità penale. È la gelosia che uscita dalla porta rientra dalla finestra!
È il riflesso pavloviano dello stereotipo che è profondamente radicato nella nostra cultura. È il riconoscimento e la giustificazione della gelosia, la giustificazione ultima dell’azione di controllo e di potere sulla donna. Il richiamo a un qualche meccanismo deresponsabilizzante nell’azione violenta, che non incide sulla capacità di intendere e volere, ma merita di essere valorizzato.
Questo è il punto, non l’abbreviato, non lo “sconto” di un terzo sulla pena in sé.
Il bilanciamento di aggravanti ed attenuanti è caratterizzato da grande discrezionalità. I Giudici della Corte di Assise avrebbero potuto ritenere le attenuanti, pur riconoscendole, ancora non sufficienti a bilanciare l’aggravante. La pena sarebbe rimasta di 30 anni. Si sarebbe riconosciuto che l’abominio dell’azione compiuta, lo strangolamento, fosse più grave delle altre considerazioni.
Eppure, non è stato fatto. Sono stati individuati motivi meritori (tra i quali la soverchiante tempesta emotiva e passionale, le parole sono importati!) per bilanciare il motivo abietto e futile del voler semplicemente punire una donna per la sua libertà.
Ovviamente, la parola della donna non ha alcuno spazio, non è mai menzionata, non ha valore.
Quel che interessa non è il singolo caso, quel che importa è il meccanismo culturale che ha portato a una tale motivazione. Continuiamo a credere che la motivazione e la giustificazione che comporta, siano dovute a un meccanismo culturale profondo che trova sempre modi e ragioni per giustificare azioni abbiette di violenza e controllo sulle donne, i loro (nostri) corpi e le loro (nostre) vite. Che la gelosia esca dalla porta e rientri dalla finestra. Che ci sia sempre un modo, magari attingendo al mondo “psicologico”, per trovare ragioni che giustifichino le azioni violente.
Allora, ancora una volta invochiamo formazione, formazione, formazione!
Per tutti/e gli/le operatori/trici del sistema giudiziario, magistrati/e avvocati/e, ufficiali di PG, ma anche consulenti, affinché il processo non sia fonte di vittimizzazione secondaria e non sia cassa di risonanza di stereotipi.