“È stata finalmente approvata la circolare INPS che definisce i requisiti e le modalità per accedere al reddito di libertà, una misura a cui i centri antiviolenza hanno guardato positivamente, ben conoscendo le difficoltà delle donne che hanno subito violenza nel riprendere in mano la propria vita in autonomia”, afferma Antonella Veltri, presidente di D.i.Re.
Di fatto però “si tratta di un intervento di facciata, se si considerano i 3 milioni di euro del Piano nazionale antiviolenza 2017-2020 che vi sono stati investiti: ne potranno beneficiare al massimo 625 donne in tutta Italia, quando sono oltre 20.000 ogni anno le donne accolte nei soli centri antiviolenza della rete D.i.Re, e circa 50.000 nel totale dei 302 centri antiviolenza contati dall’ISTAT nel 2018”, sottolinea Mariangela Zanni, consigliera nazionale D.i.Re del Veneto.
“Per beneficiare una platea significativa, diciamo anche solo un quinto delle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza, ovvero 10.000, e fermo restando un contributo di 400 euro per 12 mesi, ci vorrebbero almeno 48 milioni di euro”, calcola Zanni.
“Un contributo di 400 euro al mese è senz’altro utile, ma non è un reddito che può dare davvero l’autonomia. E non tutte le donne supportate dai centri antiviolenza sono seguite anche dai servizi sociali, né vogliono esserlo”, sottolinea Veltri. “La certificazione dei servizi sociali non è necessaria né per l’astensione dal lavoro a causa della violenza, né per gli assegni familiari, mentre invece è stata imposta per il reddito di libertà”.
“Come spesso succede per le misure che riguardano le donne, per ora è un intervento una tantum. Possiamo già anticipare che le risorse disponibili andranno presto esaurite, anche considerando il poco tempo a disposizione per chiedere il contributo: la conferma della necessità di trasformare questa misura in un intervento strutturale. D’altronde, la violenza contro le donne è, come ben sappiamo, un problema strutturale”, conclude la presidente di D.i.Re.