Pratiche giudiziarie che ostacolano l’esercizio dei diritti e la libertà delle donne

Teresa Manente*

Grazie all’attivismo delle donne, l’ordinamento italiano risulta oggi dotato di norme astrattamente idonee a garantire i diritti delle donne che subiscono violenza di genere, prima fra tutte la Convenzione di Istanbul, entrata in vigore in Italia il primo agosto del 2014.

Nella realtà, tuttavia, emergono prassi di intervento che sono contrarie alla ratio degli strumenti giuridici disponibili e che violano i diritti fondamentali delle donne. Tali prassi sono state rilevate nell’ambito dell’attività difensiva prestata dalle avvocate delle case delle donne e dei centri antiviolenza in ambito civile e penale in venti uffici giudiziari del territorio nazionale.

Nonostante la violenza domestica, intesa come “violenza fisica, sessuale, psicologica o economica” (art.3 lett.B Convenzione di Istanbul) che si verifica all’interno della famiglia tra attuali o precedenti partner, sia riconosciuta come grave violazione dei diritti umani e come “uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”, si tende ancora ad equiparare la violenza del partner maltrattante con una “lite in famiglia” o con il “conflitto coniugale” negando la violenza e il vissuto traumatico delle donne.

In primo luogo, è sempre più frequente l’invito alla mediazione familiare rivolto alle coppie da parte dei servizi sociali e di molti giudici anche in presenza di maltrattamenti fisici e/o psicologici: si ignora che le pratiche conciliative e di mediazione presuppongono una situazione di parità delle parti che è esclusa nelle situazioni di violenza (art.48 Convenzione di Istanbul).

Diffusa, inoltre, è l’idea che i maltrattamenti nei confronti della moglie o della compagna non incidono sulle competenze genitoriali dell’uomo: nelle decisioni sull’affidamento dei figli minorenni, infatti, prevale la regola generale dell’affidamento condiviso senza valutare il grave pregiudizio psicofisico causato ai figli dall’aver assistito alla violenza nei confronti della madre.

Spesso accade che, in palese violazione dell’art. 31 della Convenzione di Istanbul, che impone di prendere in dovuta considerazione gli episodi di violenza vissuti dai figli minori “al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli”, non si tenga conto:

1. della pendenza di un processo penale per maltrattamenti nei confronti del padre a danno della madre avvenuti in presenza dei figli;
2. dell’applicazione di misure cautelari specifiche emesse dal tribunale penale quali l’ordine di allontanamento o divieto di avvicinamento;
3. della sentenza di condanna per maltrattamenti;
4. degli ordini di protezione contro gli abusi familiari emessi in sede civile.

Inoltre le Procure non sempre adempiono all’obbligo di comunicare al Tribunale Civile e per i minorenni l’esistenza di reati commessi in danno o alla presenza dei figli minorenni, al fine della valutazione del pregiudizio subito dagli stessi nelle decisioni sull’affidamento.

Per assumere le determinazioni in ordine all’affidamento dei figli minorenni quasi sempre i giudici dispongono consulenze tecniche d’ufficio con quesiti standard ed indifferenziati non adattati al caso concreto. Le CTU tendono così ad ignorare la realtà della violenza, mistificata nelle forme di mera “conflittualità” delle parti, senza indagare i profili relativi ai maltrattamenti fisici e/o psicologici riferiti dalle donne che finiscono per essere colpevolizzate perché incapaci di gestire il conflitto coniugale e mantenere unita la famiglia.

In alcuni casi, si dispone anche l’affidamento dei figli al Servizio Sociale, collocandoli presso la madre, colpevolizzando e discriminando ulteriormente le donne che hanno subito violenza maschile. Si privilegia la cultura dell’unità familiare salvaguardando la figura paterna a svantaggio del diritto delle donne a vivere libere dalla violenza.

*Differenza Donna, Roma – Rete delle avvocate dei centri antiviolenza, D.i.Re.

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