La sintesi del Piano Operativo diffusa nel pomeriggio di ieri dal sottosegretario Vincenzo Spadafora insieme alla ministra Giulia Bongiorno rappresenta una dichiarazione di intenti di non chiara attuazione, calata dall’alto e non preparata in concertazione con chi lavora sul campo, a cominciare dai centri antiviolenza, al contrario di quanto il governo cerca di accreditare.
Dopo tutti questi mesi ci saremmo aspettate che tutte le attività previste nel Piano Strategico Nazionale sulla violenza maschile contro le donne (2017/2020) venissero organicamente declinate nel Piano Operativo con accanto l’indicazione delle risorse dedicate, del soggetto attuatore, dei tempi di realizzazione.
Quello presentato è un piano ancora in divenire e da aggiornare che presenta diversi elementi di preoccupazione e ci lascia con troppi dubbi.
Leggiamo nella prima scheda che il Piano indica la strategia attuativa della Convenzione di Istanbul, ma è difficile distinguere quali tra gli interventi enunciati sono da riferirsi all’asse della prevenzione, quali alla protezione delle donne, quali alle politiche integrate che pure la Convenzione definisce accuratamente.
Leggiamo che è un percorso condiviso tra attori istituzionali e associazioni maggiormente impegnate sul tema, ma noi rete nazionale dei Centri antiviolenza e componenti del Comitato tecnico conosciamo solo ora il documento.
Le risorse previste, certo in misura maggiore rispetto al passato, anche se ancora non è pronto il DPCM di riparto, saranno distribuite prevalentemente alle regioni, alle quali sono devolute tantissime funzioni strategiche quali gli interventi per le donne migranti, per le vittime minorenni, per gli uomini maltrattanti che avrebbero avuto bisogno di un’unica regia nazionale.
I fondi per i centri antiviolenza e per le case rifugio arriveranno quando e se arriveranno, attraverso le regioni con criteri che, come abbiamo già più volte verificato, possono essere molto variabili tra una regione e l’altra o addirittura escludenti per i centri di provata esperienza come nel caso della Lombardia che condiziona l’erogazione dei fondi alla comunicazione di dati sensibili, a cominciare dal codice fiscale delle donne accolte.
L’idea che le funzioni di monitoraggio e di controllo della spesa siano affidate a una task force in collaborazione con la guardia di finanza ci restituisce l’idea di un’attenzione alla trasparenza che sarebbe condivisibile se affiancata da una valutazione reale della qualità dei servizi erogati. Invece ancora persiste improvvisazione e poca esperienza in molte realtà che gestiscono servizi molto diversi da un centro antiviolenza, poco rispondenti ai bisogni delle donne e molto lontani dai centri specializzati di cui parla la Convenzione di Istanbul.
Leggiamo che è finalmente prevista la formazione dei Carabinieri, dell’esercito, della polizia locale, della polizia penitenziaria e di non meglio specificati operatori sul tema della violenza contro donne con disabilità. Ma chi erogherà tale formazione? Con quali contenuti? Sono previsti dei Tavoli tecnici su questi temi, ma non sono mai stati attivati.
Il Fondo per le donne vittime di violenza definito dalla Ministra Buongiorno “Fondo anti ostaggio” ci conferma l’idea di un governo che, oltre a non prestare ascolto a chi lavora sul campo da decenni, opera con una logica assistenziale.
Da oltre 30 anni i centri antiviolenza hanno accompagnato decine di migliaia di donne fuori dalla violenza e sanno bene che non basta un aiuto economico una tantum per allontanarsi dal maltrattante e ricominciare una vita in autonomia.
Le donne sopravvissute alla violenza hanno diritto a essere credute e supportate in un percorso di ricostruzione della propria vita nel pieno rispetto della loro autodeterminazione, libere di scegliere e libere dalla paura, come i centri antiviolenza D.i.Re fanno da sempre attraverso la costruzione di progetti individuali, definiti passo passo con le donne accolte, e non di percorsi assistenziali, standard e uguali per tutte.