Carmen Bosco*
La discussione derivata dal confronto sulla metodologia ci obbliga a declinare al plurale questo termine. Come da un anno accade nei nostri gruppi della scuola di politica, ci troviamo di fronte diverse metodologie, pratiche che negli anni si sono modificate dalla matrice originaria, sviluppatesi dall’esperienza di ogni centro, ma anche indotte dalle innumerevoli pressioni istituzionali che oggi pongono nuove sfide, nuove domande e nuovi equilibri. Tante le questioni poste.
La necessità di conciliare la politica delle donne con le regole imposte dalla Conferenza delle Regioni; la precarizzazione del lavoro e la portata del peso che questo comporta per le giovani generazioni che si spendono “gratuitamente” per il centro, il rischio che laddove esistano vincoli economici, il centro perda il suo ruolo di “regista degli interventi”; l’evidenza del fatto che i bandi pubblici prevedono all’interno dei Centri figure professionali che non appartengono storicamente a quelle pensate per i centri stessi; la questione se la rilettura di tali professionalità interne al centro vada nella direzione di una valorizzazione di queste o meno; di qui la necessità di riflettere criticamente sull’attualità dell’idea storicamente accettata che nei centri non possa farsi una psicoterapia “non medicalizzante”. È viva la preoccupazione che ci possa essere uno spostamento dell’attenzione dalla centralità della donna e della relazione tra donne alla professionalizzazione del centro e delle operatrici snaturandone l’essenza stessa. Ma è altrettanto vivo il desiderio di confronto e contaminazione anche tra di noi.
È stato tuttavia chiaro a tutte che è necessario ripartire dal riportare al centro di ogni intervento la donna, la sua storia e le sue scelte, il ruolo dell’operatrice di accoglienza quale caposaldo della nostra metodologia, il ruolo dei centri quali promotori di cambiamento culturale e di contaminazione delle realtà sociali e istituzionali, partendo da figure professionali esterne in modo da permeare anche contesti che non ci appartengono.
Metodologie diverse, dunque, ma che perseguono gli stessi obiettivi e che ci permettono di riconoscersi l’una nell’altra, nel rispetto della reciproca diversità. E al di là, delle differenze, il gruppo ha declinato vincoli e precondizioni trasversali ad operatrici, avvocate, psicologhe assistenti sociali, che costituiscono un’essenza imprescindibile ed identitaria per i centri appartenenti a D.I.RE.
Tutte le donne per poter operare nei centri devono avere una lettura femminista della realtà e della violenza come figlia della disparità di potere tra i generi.
Devono avere, anche quando operano come consulenti, sia legali che psicologiche uno stretto legame col Centro, con il suo progetto politico e avere una pratica costante di confronto e scambio con le operatrici dell’accoglienza;
Tutte le azioni approntate all’interno dei centri dovranno essere in stretta correlazione col percorso di uscita della donna dalla violenza e tendere al miglior vantaggio della donna stessa nel rispetto della sua libertà e della sua autodeterminazione;
Gli interventi saranno gratuiti per la donna;
No alla pratica della mediazione familiare;
No alle denunce obbligatorie;
No a qualsivoglia tipo di valutazione, comprese le competenze genitoriali;
No all’organizzazione di spazi neutri ed incontri protetti;
Incompatibilità per le avvocate rispetto alla difesa di uomini maltrattanti ed obbligo di essere iscritte agli elenchi dei patrocinatori a spese dello stato;
Dal gruppo emerge, infine, la proposta operativa di creare un gruppo integrato multidisciplinare (operatrici di accoglienza, avvocate, psicologhe, assistenti sociali) al fine di correlare strettamente l’interazione delle esperienze: occorre infatti una forza collettiva che elabori un pensiero che si faccia pratica da poter portare anche al di fuori dei centri, generare linguaggi comuni, rafforzare la nostra credibilità e la nostra forza e favorire cambiamenti positivi della cultura e della società.