Roma, 10 dicembre. Come si costruisce un percorso di fuoriuscita dalla violenza quando da un lato ci sono le operatrici dei centri antiviolenza della rete D.i.Re, abituate ad accogliere donne che hanno fatto autonomamente la scelta di dire basta alla violenza, e dall’altro ci sono donne migranti richiedenti asilo o rifugiate, che in larga parte sono state inviate al centro antiviolenza da qualcun altro – la Commissione territoriale, le operatrici del CAS o dello SPRAR in cui sono accolte, un/a medico? E che piuttosto vorrebbero non parlare più della violenza che hanno subìto, ma solo essere aiutate a ottenere “i documenti”, il permesso di soggiorno, un lavoro per iniziare la loro nuova vita?
A rispondere a queste domande oggi, Giornata internazionale dei diritti umani, in una sala piena alla Casa internazionale delle donne di Roma, si sono ritrovate operatrici, mediatrici culturali ed esperte attive nei centri antiviolenza coinvolti nel progetto Leaving violence. Leaving safe, realizzato da D.i.Re – Donne in rete contro la violenza in partnership con l’Unhcr, Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.
Per Mariangela Zanni, consigliera D.i.Re della regione Veneto intervenuta in rappresentanza della presidente Antonella Veltri, “la collaborazione con Unhcr ha rappresentato una opportunità per affinare il lavoro dei centri antiviolenza che già da tempo accolgono donne di ogni provenienza e crescere nella capacità di rispondere ai bisogni specifici delle donne richiedenti asilo e rifugiate”.
Ana De Vega, responsabile dell’ufficio Unhcr che si occupa di violenza sessuale e di genere, ha messo in evidenza come la collaborazione con D.i.Re abbia nutrito l’elaborazione della nuova Strategia di Unhcr per affrontare la violenza sessuale e di genere, che sarà incentrata su mitigazione dei rischi, prevenzione, risposta ai bisogni e cambiamento dei comportamenti.
Elena Cirelli e Chiara Sanseverino, coordinatrici del progetto, hanno sottolineato rispettivamente “l’enorme impegno dei centri antiviolenza per costruire un dialogo con il sistema di accoglienza e adattarsi al nuovo contesto modificato dall’entrata in vigore del Decreto sicurezza”, da un lato, e “l’inserimento stabile delle mediatrici culturali nelle equipe dei centri antiviolenza, essenziale per costruire percorsi di fuoriuscita dalla violenza che tengano conto delle diverse percezioni della violenza e delle diverse modalità comunicative quando sono in gioco le emozioni”.
Sono 50 le donne richiedenti asilo e rifugiate accolte quest’anno dai diversi centri, 85 gli attori territoriali con cui i centri antiviolenza hanno avviato relazioni “e per alcuni questo si sta traducendo nella firma di Protocolli d’intesa con le Commissioni territoriali, un segnale molto positivo”, ha sottolineato Laura Pasquero, esperta di D.i.Re che ha curato il monitoraggio costante del progetto, mettendo in evidenza come in alcuni casi il progetto abbia fatto da “volano” per attrarre anche donne originarie di altri paesi già presenti regolarmente sul territorio italiano.
“Fiducia”, “Verità”, “Bisogni” ed “Equipe” sono alcune delle piste di lavoro della revisione della metodologia di accoglienza dei centri antiviolenza su cui si sono concentrati gli interventi delle esperte, operatrici e mediatrici presenti.
Per “trasformare il tempo-purgatorio della richiesta di asilo in un tempo di rigenerazione di sé, i centri antiviolenza possono offrire l’occasione per immergersi in una relazione tra donne non giudicante e orientata alla consapevolezza dell’autodeterminazione, dopo che la propria vita è stata nelle mani di altri, dai trafficanti alle istituzioni da cui oggi dipende il permesso di soggiorno”, ha spiegato Valentina Torri, esperta del Centro Pronto donna di Arezzo.
Occorre anche “essere consapevoli che la loro fiducia è stata tradita molte volte, anche da altre donne, per questo bisogna procedere con grande delicatezza”, ha sottolineato Carmen Klinger, esperta del Centro Olympia De Gouges di Grosseto, e che “solo con la mediatrice alle volte trovano la forza di aprirsi”, come ha ribadito Florence Johnnye, mediatrice del Centro antiviolenza Emma di Torino, e “riescono a raccontare la loro ‘vera’ storia e superare la vergogna che provano per quanto è loro successo”, come ha detto Blessing Osakue del Centro Veneto Progetti Donna di Padova, “anche perché la violenza maschile è ‘normale’ in molti dei paesi da cui provengono, e anche qui, da donne straniere, nere, continuano a subirla in tanti modi”, secondo Blessing Ayomonekhai del Centro Ananke di Pescara.
“Gli stessi strumenti che i centri antiviolenza della rete D.i.Re hanno affinato in decenni di lavoro prevalentemente al fianco delle donne che subiscono violenza da parte del partner si sono riconfermati validi anche per rispondere ai bisogni delle donne migranti richiedenti asilo e rifugiate”, ha fatto notare Iliana Ciulla, esperta del centro antiviolenza Le Onde di Palermo. Una riconferma che è avvenuta “grazie alla rilettura fatta insieme alle mediatrici culturali quando diventano un elemento stabile delle equipe dei centri antiviolenza”, afferma Elisa Serafini, esperta del centro Pronto Donna di Arezzo, “nonostante questo rappresenti ancora una sfida rispetto alla sostenibilità economica di strutture dove molto del lavoro è svolto da volontarie”. Questa è stata per esempio la scelta di Laura Malgrati, operatrice del Centro di accoglienza per donne maltrattate di Milano, che gestisce anche una casa rifugio specificamente destinata all’accoglienza di donne richiedenti asilo e rifugiate.
“Rispettare i tempi della donna, consentendole di trovare dentro di sé la forza e il momento giusto per rielaborare il proprio vissuto, altro elemento cardine della metodologia di accoglienza dei centri antiviolenza D.i.Re, è molto difficile”, nota Marnie Schiavon, operatrice del Centro veneto progetti donna di Padova, “perché i tempi imposti dai percorsi di accoglienza sono indifferenti ai reali bisogni delle donne”.
“Questo percorso è solo all’inizio e occorre continuare a rafforzare le reti territoriali che possano dare risposte complesse e facilitare i percorsi di integrazione delle donne arrivate in Italia in questi ultimi anni”, sottolinea Nardos Neamin, SGBV Expert di Unhcr che ha seguito il progetto fin dal suo avvio. Una considerazione condivisa anche da Silvia Sinopoli, operatrice del centro Emma di Torino, “perché il progetto Leaving violence. Living safe rappresenta una opportunità che coglie le sfide dei cambiamenti in corso” e, secondo Celina Frondizi, esperta del centro Ananke di Pescara, “rafforza il valore politico del lavoro dei centri antiviolenza, al di là del suo valore pratico, di supporto concreto alle donne sopravvissute alla violenza”.
Ottimismo dunque, senza dimenticare però che restano numerosi ostacoli nell’accesso delle donne migranti richiedenti asilo e rifugiate ai centri antiviolenza: a cominciare dal fatto che in molti territori “i centri antiviolenza incontrano ancora difficoltà quando chiedono di presentarsi alle donne nelle strutture di accoglienza”, come hanno sottolineato Yvette Samnick, mediatrice culturale del centro antiviolenza Roberta Lanzino di Cosenza e Cynthia Aygbe, mediatrice culturale della Coop. E.V.A. di Caserta.
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