Reato di atti persecutori: D.i.Re esprime la preoccupazione che la riforma del codice penale sia applicata ai casi di violenza di genere.
Le donne quando denunciano vogliono far cessare la violenza ed accedere alla decisione di un Giudice, non essere liquidate con pochi spiccioli.
1.500 euro non bastano, né sarebbero bastati molti di più, per risarcire la donna per il danno subìto da atti persecutori che ne hanno minato la libertà di vita.
“La sentenza del Tribunale di Torino, – in cui l’imputato offre 1.500 euro come risarcimento del danno, ad una giovane donna vittima di stalking, obbligata poi dal gup ad accettarlo, suo malgrado -, conferma le nostre preoccupazioni già annunciate nel mese di luglio”.
Così commenta Lella Palladino, presidente dell’Associazione nazionale D.i.Re, alla notizia dell’applicazione del meccanismo di estinzione del reato per condotte riparatorie in caso si stalking, in applicazione della recente riforma del codice penale.
Lo strumento della giustizia riparativa deve essere applicato nel rispetto dell’art. 48 della Convenzione di Istanbul che vieta il ricorso a metodi alternativi di risoluzione dei conflitti tra cui la mediazione e la conciliazione nei casi di violenza maschile contro le donne.
Le donne scelgono di denunciare, sollecitate a farlo anche da messaggi provenienti dalla politica, e il principale interesse che le muove non è certamente quello di ottenere il risarcimento del danno patito ma quello di far cessare al più presto la persecuzione che stanno subendo e vedere riconosciuta, attraverso il giudizio, la pericolosità della condotta denunciata e il diritto di vivere libere da questi comportamenti ossessivi che ne limitano le scelte di vita.
La sentenza del GUP di Torino, mostra i limiti dell’applicazione della giustizia riparativa ai casi di violenza di genere. Il meccanismo di estinzione del reato ignora sia l’interesse privato che quello pubblico, rispondendo solo ad esigenze deflattive. Così facendo si ignora la sicurezza della vittima, si banalizza la gravità della violenza di genere, si nega l’accesso alla decisione giudiziale alla vittima e si aprono le porte alla vittimizzazione secondaria che la Convenzione di Istanbul ha inteso evitare.
Già la CEDAW Committee aveva messo in guardia lo Stato italiano dall’applicazione della giustizia riparativa nei casi di violenza di genere e la Corte di Strasburgo con la Sentenza Talpis condanna l’Italia proprio per la sottovalutazione, la discriminazione e la non applicazione delle norme.
Questa sentenza, banalizzando la sofferenza e la volontà della donna, ripropone i limiti di strumenti inefficaci e dannosi se applicati alla violenza di genere. L’assenza nel nostro ordinamento del divieto di ricorso alla giustizia riparativa in caso di violenza di genere, non è in linea con i trattati e le convenzioni internazionali cui il nostro Paese aderisce.
I reati di violenza contro le donne non si cancellano a pagamento!