La propria interpretazione della felicità

Elisa Maurizi*

“Le femmine sono…maschilistiche!”, cit.

Rumoreggiando per la grande curiosità e la sorpresa, i partecipanti al laboratorio della classe IID delle scuole Don Bosco di Prato si scambiano battutine e sguardi talvolta d’impaccio, talvolta d’intesa. Finalmente, per due brevi ore, è loro concesso di liberarsi dalle rigidità scolastiche, dal linguaggio compìto della lezione…allentiamo i vincoli anche simbolici dello spazio classe e lasciamo la parola alle emozioni, ai bisogni che sentiamo repressi, ai sentimenti.

Post-it, pennarelli e si parte! I maschi sono invitati a scrivere su un post-it cosa siano le femmine e viceversa, le femmine sono chiamate a dire la loro sui maschi di loro conoscenza – basta un nome, un aggettivo, ma a volte il concetto è complesso e richiede una frase intera. All’inizio, un’aria di eccitazione ed imbarazzo – la richiesta risulta spiazzante – ma dopo un attimo, tutt* hanno chiaro cosa scrivere: I maschi sono “quelli che: “donna, passami una birra!”, “le femmine sono come il miele, dolce ma a volte può dar noia“, “alcuni maschi, soprattutto a quest’età sono pervertiti ma la gran parte sono tutto, il tuo sorriso, ti sostengono, ti difendono“…i risultati sono i più disparati. Ognuno attacca il proprio post-it ad un cartoncino e dopo, alla lavagna si raccolgono tutte le idee e si riflette, si discute anche, insieme. Una ragazza, Irene, si impone sui compagni con rabbia e sicurezza: “ecco per esempio, a me piace giocare a calcio ma non è vero che sono lesbica, a me mi piacciono i ragazzi!”. La classe scoppia a ridere, per l’imbarazzo e per il pudore verso cose di cui si parla poco e solo per prendersi in giro; i ragazzi (o le ragazze?) che l’avevano accusata sono presi in contropiede e tentano una difesa timida o negano. Allora Irene, forte di avere la ragione dalla sua, insiste: “che ci posso fare se mi piace giocare a calcio?!“. Irene non ha paura di mettere a nudo la propria sofferenza verso le idee ingiuste che altri si fanno di lei. Sorride nel raccontarsi, con la rabbia e la sicurezza di chi sa di aver diritto alla propria interpretazione della felicità.

Questo è uno dei momenti vissuti nelle classi che hanno partecipato ai nostri laboratori. La prima impressione quando iniziamo gli interventi nelle classi è sempre quella di aver provocato impaccio per la scelta chiara di discutere posizioni e trattare temi – l’affettività, l’identità sessuale e di genere, la violenza – generalmente ignorati in famiglia e a scuola, se non con intento sanzionatorio o normalizzante. Notiamo che non tutti i partecipanti intervengono direttamente – troppi preoccupanti silenzi abbiamo incontrato tra le ragazze delle superiori – e che alcuni oppongono resistenza. Sappiamo tuttavia che anche loro stanno maturando una riflessione che talvolta richiede tempi e modi da comprendere.

Molti invece sono i partecipanti che esprimono emozioni forti di gioia e sollievo. Questi ultimi trovano una liberazione alle sofferenze vissute nel quotidiano perché, forse per la prima volta, si accorgono che qualcosa di diverso esiste/può esistere. Le norme sociali possono e devono mutare, le aspettative su entrambi i generi possono e devono essere più flessibili e più accoglienti della diversità, la violenza non deve essere mai tollerata. Nella discussione vediamo nascere tante riflessioni spontanee sul sè, riguardo a cosa significhi volersi bene o amare, cosa sia una relazione sana, cosa è giusto pretendere e cosa è giusto concedere… un’analisi dei rapporti affettivi porta ad uno sguardo sincero su di sé, ad un’analisi dei propri bisogni e dei propri rapporti. Si parla volentieri dell’amore, di amore malato, di dipendenza affettiva e del controllo della gelosia, che rende schiavi sia chi la subisce sia chi la esercita. Si parla anche dell’amore che fa stare bene, ed insieme ai partecipanti cerchiamo di formulare la nostra ricetta dell’amore con gli ingredienti della libertà, del rispetto, della fiducia. Molti, ascoltando le parole delle operatrici, si trovano di fronte ad alternative che danno speranza: come nel caso di Irene, le nostre parole sono in sintonia con qualcosa che nell’intimo loro già sentivano giusto ma che, per conformismo o timidezza, era stato silenziato e messo da parte. Dare voce ai propri bisogni e soprattutto vederli oggettivati come diritti e resi pubblici durante un laboratorio in classe, costituisce un momento di speranza per tutti i partecipanti.

Ben lontane dal rimarcare omogeneità di pensiero nelle classi, durante i laboratori abbiamo riscontrato che:

  • le femmine valutano il comportamento dei maschi con maggior severità: si rileva una prevalenza di giudizi femminili riferiti all’immaturità, alla superficialità, aggressività, irresponsabilità e al fatto che i maschi siano esageratamente orientati alla sessualità. Percepiti come positivi sono invece i giudizi riferibili al sogno d’amore e alla protezione.
  • gli stereotipi che gravano sull’identità maschile (machismo, successo in sport/sessualità, emotività repressa ecc.) sono tanto rigidi e “appiccicosi” quanto quelli sull’identità femminile.
  • la violenza psicologica è largamente minimizzata: in alcune classi, soprattutto nelle scuole superiori, è percepita come normale conflitto ed è giustificata fra pari da un certo linguaggio. Si confonde con atti di bullismo vero e proprio. Inoltre, é riconosciuta come elemento di forza necessario nello sviluppo verso l’età adulta, come diritto all’attacco fra pari in crescita insieme al dovere dell’altro di difendersi senza tenere di conto degli adulti o della sensibilità altrui. Si configura il ricorso della violenza psicologica come iniziazione al mondo adulto, come prova di autonomia che renderebbe maturi e liberi. Per contro, osserviamo un rifiuto del ricorso a mezzi “legali” e a riferimenti adulti (professori, genitori) nella risoluzione di tali gravi conflitti.
  • le molestie sessuali sono disconosciute come reato: per i maschi sono segno di affermazione della virilità e appartenenza al gruppo di pari; notiamo accettazione anche da parte delle femmine di norme sociali discriminanti e comportamenti anche spinti che consentono la violazione del corpo. Tali gesti vengono interpretati come segno del desiderio dei maschi verso le femmine che richiedono adeguamento, seppure a spese della propria integrità fisica e morale.

Il percorso della Nara con le scuole nasce prima negli istituti secondari di II grado per singoli incontri, brevi percorsi formativi coi genitori, assemblee o interviste.

Nel 2013 è stato steso il libretto Ipazia e i diritti delle donne, uno strumento divulgativo costruito in collaborazione con un’associazione del territorio e un comune della provincia di Prato.

Nello stesso anno abbiamo elaborato attività per laboratori finalizzati a coinvolgere le scuole secondarie di I grado. Il primo modulo prevedeva due momenti di incontro, il primo sugli stereotipi e sull’identità di genere, il secondo focalizzato sulla storia dei diritti acquisiti dalle donne. Grazie al libretto di Ipazia, abbiamo ripercorso gli anni dalla Costituzione ad oggi e proposto un’analisi storica, culturale e del costume attraverso testimonianze video, letture, esercizi di gruppo, con l’intento pedagogico di coinvolgere attivamente gli alunni coinvolti e di costruire ogni volta un percorso di senso secondo le esigenze della classe.

Con l’elaborazione del secondo modulo, ci siamo riavvicinate nel 2014 agli studenti delle scuole secondarie di II grado e abbiamo sviluppato nuove attività, su misura per livello di maturità e strumenti cognitivi, sugli stereotipi di genere, sulle definizioni di violenza e sul suo riconoscimento, sulle pratiche di contrasto alla violenza di genere.

*Centro antiviolenza La Nara, Prato

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