Non sempre è bene partecipare ai bandi pubblici: La scelta di Rompi il silenzio di Rimini

Intervista a Paola Gualano, Presidente di Rompi il Silenzio, Associazione di volontariato nata nel 2005 a Rimini

Conversazione con Anna Pramstrahler*

L’Emilia Romagna è una delle poche regioni nelle quali i Centri antiviolenza sono rimasti in “mano alle donne”. Mentre in tutta Italia sono nate varie leggi regionali – e sinceramente penso che le donne dell’Emilia abbiano fatto bene ad evitare leggi e leggine sulla regolamentazione dei Centri – contemporaneamente sono nati come i funghi Centri gestiti da cooperative, dalle istituzioni, da AUSL, da enti privati e pubblici vari che in verità non hanno storia, competenza e non vengono dal percorso più politico come i Centri antiviolenza nati dal movimento delle donne.

Anna Pramstrahler: Ora in Emilia Romagna con il finanziamento nazionale della Legge 119/2013 sul riparto delle risorse per il finanziamento delle politiche in contrasto alla violenza la distribuzione in tutta Italia dei fondi a tappeto ai Comuni ha portato alcuni problemi anche nella vostra realtà.

Recentemente c’è stato un bando per l’assegnazione di una casa rifugio a Cattolica. Perché non avete partecipato al bando? Sicuramente eravate l’Associazione con più requisiti e storia per partecipare e vincere questo bando.

Paola Gualano: Partiamo dalla chiusura della nostra casa rifugio ‘Casa Artemisia’, la prima casa rifugio gestita da “Rompi il Silenzio” per 4 anni: nell’autunno del 2014, sapendo che il contratto d’affitto per l’alloggio, a scadenza, non sarebbe stato rinnovato, con alcuni responsabili della Provincia e del Comune di Cattolica eravamo in cerca di un’alternativa nel distretto sud della nostra Provincia. In quel momento si parlava di un progetto che desse continuità a Casa Artemisia, sostenuto, come in precedenza, da fondi provenienti dalla Provincia (aste, raccolte fondi..), dai Piani di Zona e dai fondi regionali: il soggetto affidatario non era neppure in discussione.

Nell’estate del 2015 una soluzione abitativa non era ancora stata trovata e, nonostante le sollecitazioni e le richieste di chiarimento alla Provincia e al Comune di Cattolica, anche nella consapevolezza dei termini per l’utilizzo dei fondi, nessuno aveva la volontà di dare risposte.

Ad ottobre 2015, con una DD del Comune di Cattolica, viene indetta una procedura di gara per l’individuazione di un soggetto cui affidare la gestione della casa rifugio, procedura che, alla scadenza, andrà deserta. Poco tempo dopo, Rompi il silenzio viene convocata dal Comune di Cattolica per una consultazione informale con il dirigente ed il funzionario responsabili del provvedimento, durante la quale elenchiamo i motivi che ci hanno portato a non partecipare alla gara: una fideiussione bancaria del 10% del prezzo di aggiudicazione, l’impossibilità di fare alcun tipo di convenzione, ovvero di chiedere rette per le donne ospitate (‘la casa è per le donne del territorio, se ospitate donne che provengono anche da fuori regione, potrebbe non esserci posto per le nostre’); il Comune non forniva nessuna descrizione dell’appartamento, tale da poter valutare la spesa di gestione che si sarebbe dovuta sostenere. Ed ancora: il regolamento della casa sarebbe stato fatto di concerto con il Comune; relazione trimestrale contenente la relativa rendicontazione delle ore effettivamente svolte, pena il mancato pagamento di quanto dovuto. N.B.: il bando non prevede la presentazione di un progetto per la gestione delle casa.

Sappiamo com’è finita: nonostante il Comune di Cattolica citi i “requisiti minimi per i Centri Antiviolenza, stabiliti dalla Conferenza Stato/Regioni”, parli di “finanziamenti regionali” dei quali conosciamo regole e ‘paletti’, affida la gestione della casa all’associazione AntiViolenza e AntiStalking Butterfly che non è un Centro Antiviolenza; l’associazione, tra l’altro, è appena nata e ha vinto con un ribasso dell’offerta, non ha operatrici formate nell’ambito della violenza di genere e non conosce la metodologia, la filosofia e la cultura dei CAV. Tra l’altro dichiarano sul loro sito di utilizzare la ‘mediazione familiare’ come uno degli strumenti per affrontare il problema della violenza.

AP: Il Piano nazionale antiviolenza, come sai è stato molto contestato da D.i.Re, ma alcuni punti fermi ci sono tra cui che i Centri non devono in alcun caso svolgere mediazione familiare. Come volete procedere?

PG: Dubito siano necessari commenti. L’unico concesso è: ‘non sulla pelle delle donne’.

Quello che deve essere assolutamente chiaro è che Rompi il silenzio ha dimostrato, negli anni, di prediligere il lavoro di rete: in molti dei nostri progetti abbiamo proceduto creando delle vere e proprie ‘cordate’ con associazioni del territorio, istituzioni ed altri soggetti, dove ognuno mette a disposizione le proprie competenze ed il proprio sapere. La nostra non è una guerra contro l’associazione che ha vinto il bando: ciò che a noi preme è che le donne vittime di violenza, i loro bimbi, siano accolti e sostenuti con metodo e competenza; la guerra, se così vogliamo definirla, è nei riguardi di metodologie d’accoglienza che considerano la violenza un conflitto, nei riguardi di chi si improvvisa esperto/a in un campo estremamente delicato, dove il rischio di commettere errori gravi è molto alto.

Detto questo, credo sia nostro preciso dovere informare l’assessorato regionale di riferimento, affinché verifichi, come minimo, la conformità con quanto stabilito dalla Conferenza Stato/Regioni.

AP: Ma Rompi il silenzio attualmente gestisce una casa rifugio?

PG: Certo. Abbiamo un Centro antiviolenza aperto 5 giorni la settimana, siamo nel Coordinamento dei centri antiviolenza dell’Emilia Romagna e in D.iRe. Attualmente gestiamo due case rifugio ad indirizzo segreto: nell’anno appena trascorso abbiamo garantito l’ospitalità di 15 persone, tra donne e bimbi. Il finanziamento regionale ci ha permesso di rendere la casa rifugio (6 posti letto) molto più accogliente ed attrezzata, di garantire operatrici ed educatrici dedicate. La seconda casa aperta, inaugurata la scorsa estate (2 posti letto), è da considerarsi ‘di passaggio’, utilizzata nel primo periodo dell’emergenza e in occasione di ospitalità per brevi periodi.

AP: Come Centri antiviolenza non abbiamo mai saputo dalla nostra Regione, nonostante fosse chiesto, quali fossero i 23 centri antiviolenza e le 33 Case rifugio della Regione Emilia Romagna finanziate dal reparto. Noi del Coordinamento regionale siamo in 13 Associazioni che gestiscono i Centri antiviolenza e case rifugio, la maggior parte nati oltre 20 anni fa ma alcuni anche più giovani. Quali sono secondo te gli altri Centri? La stessa regione non ha l’elenco?

PG: A proposito del numero dei Centri nella nostra Regione, che pare sia lievitato nell’ultimo periodo, la Regione ha censito i Centri la scorsa estate e dovrebbe avere un quadro corretto dal punto di vista numerico e di ciò che gli stessi offrono in termini di ‘servizi’. Alcune Associazioni/Centri hanno più sedi sul territorio e potrebbero, erroneamente, aver fatto una ‘somma’: è un’interpretazione forse semplicistica, ma non voglio credere che nel conteggio siano stati inseriti anche soggetti che non hanno nulla a che fare con i Centri. Credo che progetti come la casa rifugio di Cattolica non debbano entrare in tale conteggio, in quanto non hanno i requisiti. Mi auguro che in seguito alla presentazione del Piano antiviolenza Regionale, ed più che una speranza, i Centri antiviolenza gestiti da donne assumano, finalmente, il giusto riconoscimento e la centralità che gli spetta per il lavoro svolto in tutti questi anni.

AP: Tra l’altro anche a Piacenza, il Telefono Rosa nato nel 1994, ha avuto grossi problemi recentemente con la gestione della casa rifugio, non vedendo riconosciuto il proprio bagaglio culturale, di presenza operativa, di approccio teorico. La gestione era è andata direttamente al l’ ASP città Piacenza, titolare dei fondi ministeriali, mentre il Telefono rosa avrebbe avuto tutte le possibilità di gestire direttamente questo progetto con una gestione che rispetti di più la metodologia dei centri antiviolenza di donne.

PG: Dalle informazioni pervenute in merito ai fondi regionali gestiti dall’ASP di Piacenza sembra che la gestione della “Casa rifugio” preveda un contratto di gestione tra ASP e l’Associazione La Città delle donne – Telefono Rosa Piacenza.

Asp – Città di Piacenza, garantirà l’apertura e il funzionamento della casa rifugio, attraverso una convenzione con Telefono Rosa di Piacenza. In un certo modo la professionalità delle operatrici dell’Associazione viene salvaguardata, tuttavia, l’ASP entra in merito anche alla definizione dei criteri di accesso e del regolamento di funzionamento della Casa rifugio e a predisporre progetti sociali individualizzati, comprensivi di eventuali interventi economici, a favore delle donne accolte nel Centro antiviolenza. Di sicuro, un intervento simile, riduce l’autonomia delle operatrici del Centro di antiviolenza non valorizzando e soprattutto non tenendo in considerazione il bagaglio culturale e l’approccio teorico dei CAV.

Sarebbe auspicabile che i Fondi regionali, venissero gestiti direttamente dalle associazioni di donne, dando agli stessi gli strumenti (soprattutto finanziari) per rendersi autonomi e per difendersi dalla proliferazione di “soggetti” che si autorizzano, e talvolta si improvvisano, esperti, sul tema “violenza di genere”. I Comuni, le ASP, dovrebbero svolgere unicamente il ruolo di “ente finanziatore “ e permettere ai CAV di lavorare in rete con i servizi del territorio, coerentemente con la metodologia che li caratterizza e che li accomuna.

*Casa delle donne per non subire violenza, Bologna

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