Anna Petrungaro* intervista Lea Melandri, scrittrice, giornalista e femminista storica.
Anna Petrungaro (AP): Il 4 e 5 febbraio a Bologna oltre 2000 donne hanno proseguito la discussione avviata il giorno dopo la maestosa manifestazione del 26 novembre. Ci siamo date appuntamento l’8 marzo, con una ricca agenda di proposte da comunicare e condividere diffusamente su tutto il territorio nazionale. Che sensazione fa, constatare questa fortissima legittimazione e riappropriazione della parola ‘femminista’, sebbene declinata con una pluralità di senso, tratti e posture politiche che si autodefiniscono fortemente innovativi rispetto ai femminismi degli ultimi decenni.
Lea Melandri (LM): Come ho scritto in occasione della grande manifestazione del 26 novembre a Roma, valeva la pena aspettare dieci anni per ritrovarsi di nuovo in tante e poter dire che siamo un movimento, e non solo una rete virtuale, anche se le reti ci sono state di aiuto per uscire dalla carsicità, metterci in collegamento con le altre importanti proteste di piazza presenti oggi in tanti paesi del mondo.
Quanto alla parola “femminista”, vederla ricomparire insieme ad altre soggettività -Lgbtqi, queer, ecc.-, che oggi emergono con la stessa spinta rivoluzionaria che ha avuto il movimento delle donne negli anni ’70, mi ha fatto piacere. E’ certamente uno dei più importanti aspetti innovativi, a cui aggiungerei il fatto che la violenza manifesta –omicidi, maltrattamenti, stupri-, nel momento in cui ha potuto svincolarsi da tante contraddizioni e ambiguità, ha fatto da detonatore e svelamento delle molteplici, diverse facce del dominio maschile: dal privato al pubblico, dalla sessualità all’economia, alla politica, alla precarietà esistenziale che colpisce particolarmente le donne.
La globalizzazione, sia come migrazione di popoli e di culture, sia come effetto delle nuove tecnologie comunicative, ha favorito la messa a tema di nessi che ci sono sempre stati tra sessismo, razzismo, omofobia, nazionalismo, fondamentalismo e neoliberismo. Basta leggere il manifesto Ni Una Menos delle donne argentine, da cui è partita l’idea dello “Sciopero internazionale delle donne” –Paro Internacional de Mujeres 8 de marzo- condiviso da una trentina di Stati, per capire che il potere maschile è oggi stanato, dalla vita intima alla realtà sociale, dalla violenza che ha esercitato sui corpi, come in tutte le forme invisibili di oppressione e assoggettamento, compreso l’amore.
Basta questo? Temo di no. La rappresentazione maschile del mondo è ancora saldamente radicata nei poteri, nei saperi, nei linguaggi della vita pubblica e, soprattutto, in quella che Pierre Bourdieu, nel suo libro Il dominio maschile, chiama “l’oscurità dei corpi”: pregiudizi, habitus mentali, convinzioni inconsapevolmente fatte proprie anche dalle donne. Per liberarsi di modelli che perdurano tramandati da secoli come leggi “naturali”, non bastano certo due o tre generazioni di femministe, tanto più che, come abbiamo constatato nell’arco di quasi mezzo secolo, sembra ancora difficile consegnare, a chi viene dopo, saperi e pratiche che, in alcuni passaggi storici, hanno conosciuto un approfondimento straordinario, come negli anni’70. Avere un pieno di tematiche in campo e un vuoto di analisi alle spalle, è un elemento di debolezza
AP: L’incontro e il confronto politico intergenerazionale, nel corso degli incontri è stato vivacissimo, a volte aspro. Eppure, fino ad oggi, ha prevalso la tenuta e l’inclusione delle diversità a discapito di rotture e scissioni. Anche questo è un segnale nuovo. Credi possibile proseguire nelle analisi, nelle battaglie politiche tenendo dentro tanta differenza?
LM: A proposito di incontro e confronto generazionale, direi che il problema non sta tanto in un conflitto di obiettivi di lotta, come è stato per la mia generazione rispetto all’emancipazionismo della prima metà del Novecento. Si è trattato allora di una svolta radicale -dai temi dei diritti e della cittadinanza alle problematiche del corpo-, un salto della coscienza storica che riscopriva la politicità di tutto ciò che era stato considerato “non politico”.
La differenza che io avverto riguarda piuttosto la pratiche politiche, dove l’azione, la performance, il gesto più o meno provocatorio, sembrano averla vinta sulla riflessione portata nel profondo dei vissuti personali. Non posso dimenticare che le manifestazioni per l’aborto negli anni ’70 furono precedute e accompagnate da anni di autocoscienza e analisi collettiva sulla sessualità, la maternità, il rapporto tra il corpo e la legge. Oggi si parla di “educazione di genere” nelle scuole ma poco si dice di quanto i saperi e le pratiche nate da tanti anni di impegno femminista possono essere necessarie nella formazione di insegnanti, psicologi, ecc. Rapidità e semplificazione non aiutano il processo di nascita di singolarità femminili autonome, non conformi ai modelli tradizionali. Lo dimostra la femminilizzazione dello spazio pubblico: un femminile che sembra essersi emancipato “in quanto tale”, senza significativi cambiamenti rispetto alle identità e ai ruoli di genere già noti.
AP: L’impatto politico e sociale di quello che sta succedendo, ho l’impressione che sia di uno spessore tale da esondare dalla capacità di intercettazione e percezione, sia delle istituzioni che degli organi di stampa. Forse neanche noi ancora riusciamo a coglierne la portata. Eppure si avverte una corrente del tutto inedita, una forza che raccoglie e trascina un enorme desiderio di cambiamento. Riesci ad intravedere, prefigurare un futuro prossimo di questo?
LM: C’è sicuramente oggi in molti paesi una volontà e una spinta enorme al cambiamento, alimentata dalle ritorsioni conservative, per non dire vendicative, degli uomini che si ritengono, nel privato come nel pubblico, depositari di un potere“naturale” sull’altro sesso. Quanto la “marea” delle donne che avanza contro un sistema visto oggi in tutte le sue articolazioni -patriarcali, capitalistiche, fondamentaliste e neoliberiste, ecc.- possa aprire faglie, spostare privilegi, modificare politiche governative, è difficile prevedere. Penso, in particolare, al “Piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere” da poco approvato, e agli “8 punti” elaborati dalle assemblee tenute e Bologna tra il 4/5 febbraio per modificarlo.
Non dovrebbe colpire solo la forte presenza nelle piazze, che si ripeterà l’8 marzo, ma anche la novità di una mobilitazione che è venuta crescendo con un rigoroso, tenace, percorso a tappe: da Roma al convegno di Bologna e a tutte le assemblee che si tengono quasi settimanalmente nelle città. Un movimento, questa volta, che sembra avere forza di durata.
Non mancheranno i soliti sbarramenti: innanzi tutto l’informazione, latitante o voyeuristica, pregiudiziale, interessata, dei giornali, che vedono solo gli aspetti folcloristici e spettacolari; per un altro, c’è da aspettarsi la capacità come sempre inclusiva e neutralizzante dell’apparato istituzionale rispetto alla spinta rivoluzionaria dei movimenti che nascono dal basso. Il “Piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere” ne è un chiaro esempio: ha raccolto abilmente a parole le istanze portate avanti da decenni dal femminismo, mentre di fatto sta usando l’istituzionalizzazione per emarginare o far chiudere i centri antiviolenza. Si fa pressione per avere una parola pubblica su temi e pratiche che si ritengono essenziali, e quando arriva, li restituisce irriconoscibili, privati della loro autonomia.
Per un certo verso, qualcosa di simile sta succedendo col Comune di Milano, che ha affidato il palco in piazza Duomo per l’8 marzo a Jo Squillo – invitata ormai in varie città, da Bologna a Genova e ora a Milano come testimonial del movimento contro i femminicidi- e alla sua associazione “Il muro delle bambole”, con un programma di musica e testimonianze di donne “vittime” di violenza.
Le manifestazioni vengono dal basso, i palchi scendono quasi sempre dall’alto e incorporano, neutralizzandoli, cancellando ogni traccia di originalità e autonomia, i cambiamenti che sentono minacciosi per l’ordine esistente.
*Centro Antiviolenza Roberta Lanzino