Il corpo di Stato. Alcune considerazioni sul “Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere”

Lea Melandri*

Il rapporto tra il corpo e la legge, nella storia ormai quarantennale del movimento delle donne in Italia, ha sempre posto interrogativi e aperto conflitti. È capitato negli anni Settanta, in due occasioni particolari: quando si discusse dell’aborto -se battersi per una legge che lo rendesse assistito e gratuito, e perciò riconosciuto come un diritto civile, o limitarsi a chiederne la depenalizzazione-, e quando, nel 1975, furono istituzionalizzati i Consultori.

Il desiderio di non perdere l’autonomia e le consapevolezze che nascevano da una pratica anomala come l’autocoscienza, si è sempre accompagnato alla richiesta più o meno esplicita, di una “parola pubblica” che riconoscesse alla questione uomo-donna, vista sotto il profilo della sessualità, maternità, salute, lavoro di cura, ecc., il peso politico che ha sempre avuto.

Sui rischi che si corrono nell’esposizione del corpo alla politica, uno dei giudizi più lucidi resta quello che si legge nel saggio di Giorgio Agamben, Homo sacer (Einaudi 1995):

Aporia della democrazia è voler giocare la libertà e la felicità degli uomini nel luogo stesso – la nuda vita – che segnava il loro asservimento (…) gli spazi, le libertà e i diritti che gli individui guadagnano nel loro conflitto coi poteri centrali, preparano ogni volta, simultaneamente, una tacita ma crescente iscrizione della loro vita nell’ordine statuale.”

Che la conquista di un diritto, la consegna alla legge e quindi alle politiche pubbliche di un’azione nata dal basso, con soggetti non istituzionali, potesse distorcere le finalità e i modi di agire con cui era nata, non sfuggì neppure alle donne che in varie città italiane avevano creato gruppi e consultori autogestiti. Rileggere oggi i loro documenti vuol dire rendersi conto che quello che è successo una volta potrebbe succedere ancora, e con ricadute molto simili.

 “…sono ben note le difficoltà che tutti questi gruppi hanno incontrato nel tentativo di superare la contraddizione tra una pratica femminista di autocoscienza sui problemi della salute, ed il pericolo di ricadere in una struttura di servizio.”

“…i consultori pubblici, regalati alle donne dalla nuova legge, corrispondono esclusivamente, così come sono stati concepiti, a un servizio che lo Stato intende fornire alle donne, per razionalizzare e controllare una situazione, di fatto, sempre più esplosiva.”

“Occorre quindi assolutamente distinguere tra consultori autogestiti dal movimento, intesi come ricerca autonoma delle donne, e i consultori istituzionali. Queste due esperienze vanno tenute distinte e possono coesistere. Di questa necessaria distinzione non si trova traccia nella piattaforma, ma anzi si annulla la prima esperienza nella seconda, cadendo ingenuamente nella trappola.”

“Una delle cose più scandalose che emergono dalla legge-quadro nazionale è la possibilità offerta ai privati di rosicchiare un altro osso, ottenendo l’appalto di queste istituzioni e non solo di queste, ma della stessa preparazione dei ‘tecnici’”.

Il documento da cui sono tratte queste illuminanti osservazioni -“A proposito della piattaforma del Crac sui consultori”, Milano marzo 1976, firmato da Ida Farè, Luciana Percovich, Andreina Robutti, Maria Castiglioni, Rina Cuccu- è riportato nel libro di Luciana Percovich, La coscienza nel corpo. Donne, salute e medicina negli anni Settanta, Fondazione Badaracco-Franco Angeli, Milano 2005.

Il “Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere”, che sta per essere approvato, viene al seguito del lungo e paziente lavoro volontario dei Centri antiviolenza, oltre che dall’impegno di larga parte del femminismo -dibattiti, convegni, manifestazioni, pubblicazioni, interventi sui media, ecc.- per far uscire la violenza maschile contro le donne dal confinamento nei casi di cronaca nera, nella patologia, nelle conseguenze del degrado sociale e dell’arretratezza di culture straniere. Ma di questo “precedente” storico, culturale e politico, benché ampiamente documentato, nella Premessa non c’è traccia.

Si parla di “fenomeno strutturale”, dovuto a rapporti di potere diseguali tra i sessi, della necessità di un “sistema integrato di politiche pubbliche” per la salvaguardia e promozione dei diritti umani delle donne, di azioni a favore delle vittime e interventi di contrasto alla violenza di genere, associata -nella ratifica alla Convenzione di Istanbul (15 ottobre 2013, Legge 119)- “alle disposizioni urgenti in materia di sicurezza” e “protezione civile”.

Il primo e unico passaggio, in cui viene riconosciuta ai Centri anti-violenza una “rilevanza” particolare e un legame col femminismo, si trova negli “Obiettivi del Piano”. Da quel punto in avanti saranno sempre accomunati, senza alcuna distinzione, alla realtà del Privato Sociale, del Terzo Settore, dell’Associazionismo governativo.

 “…azioni sinergiche tra istituzioni e mondo dell’associazionismo e più in generale del privato sociale, riconoscendo a livello normativo la rilevanza dell’esperienza e dei saperi che in primis i centri anti-violenza hanno sedimentato, anche mettendo a frutto l’esperienza politica del movimento femminista, nei diversi territori dove sono presenti.”

Quale sia il significato da dare a “sinergia”, “azioni coordinate”, “governance multilivello”, è chiaro fin dall’inizio. La “democrazia attiva”, a cui il Piano sembra aspirare, prevede in realtà “due articolazioni diverse” che riportano poteri e valori dentro gerarchie note: al centro c’è la “politica” nelle sua accezione tradizionale, dalla Presidenza del Consiglio, dalle Amministrazioni Statali fino agli Enti Locali, riuniti in un Tavolo Interistituzionale a cui spetta il compito di programmare, pianificare le azioni e coordinare in un sistema unico la varietà degli interventi; ai margini, come “sussidiarietà circolare”, stanno i servizi pubblici, il Privato Sociale, la società civile e le realtà che “hanno maturato esperienze significative nella presa in carico delle donne vulnerabili”, chiamati a partecipare “a livello tecnico” a un “Osservatorio nazionale sul fenomeno della violenza”.

Non lascia molto a sperare in fatto di riconoscimenti, autonomia, orizzontalità nei processi decisionali, neppure il “Tavolo di Coordinamento del sistema degli interventi per il contrasto, il trattamento della violenza maschile contro le donne e il loro inserimento socio-lavorativo”, che verrà istituito negli ambiti territoriali.

L’eterogeneità dei soggetti che ne faranno parte, con compiti di indirizzo, programmazione, monitoraggio del fenomeno -Prefettura, Forze dell’Ordine, Procura della Repubblica, Comuni, Asl, Associazioni del Pronto Soccorso, ecc.- e la modalità con cui si prevede debbano essere realizzati i programmi con le parti interessate –Protocolli di intesa, Convenzioni, ecc.-, la dicono lunga sulla macchinosa integrazione istituzionale e burocratica a cui vanno incontro i Centri anti-violenza e tutto il patrimonio di sapere e di pratiche prodotto dal movimento delle donne.

Non è difficile immaginare che, nella difficoltà di scendere la scala dei molteplici sbarramenti istituzionali, anche i ristretti finanziamenti previsti per l’attuazione del Piano finiranno nel contenitore più vicino a centro della Governance, la Banca Dati, a cui spetta il sistema di monitoraggio del fenomeno a livello nazionale.

Dall’enfasi con cui viene descritta un’azione che dovrebbe essere soltanto di supporto, ma soprattutto dalle rilevazioni tutt’altro che “statistiche” che le si richiedono, si capisce con chiarezza quale è il senso complessivo di una Legge che fa proprio a parole il dettato della Convenzione di Istanbul sulla “necessità di promuovere cambiamenti socio-culturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull’inferiorità della donna”, mentre si muove di fatto su un terreno che è ancora quello della patologia e della criminalizzazione della violenza maschile contro le donne.

Basta scorrere le pagine dedicate al “sistema integrato di raccolta ed elaborazione dei dati” e quelle finali sulla “valutazione del rischio”, sul soccorso e assistenza alle vittime, per rendersi conto che il discorso sull’educazione di genere nella scuola, sulla sensibilizzazione e formazione di tutti i soggetti coinvolti a vario titolo nel fenomeno, perde al confronto credibilità e importanza. Non è trascurabile il fatto che la raccolta dati sia affidata essenzialmente alle amministrazioni centrali e territoriali, mentre -si legge- “saranno individuate le modalità utili ad un coinvolgimento stabile dei Centri anti-violenza nella rilevazione e trasmissione delle informazioni acquisite nel corso delle attività, sia con riferimento alle reti stabili e già operative che ai centri non inclusi in network di lavoro.

Ma più allarmante è la descrizione dei “dati” che dovranno affluire al Centro per essere raccolti ed elaborati: “profili caratteristici delle vittime di violenza”, “informazioni relative al fatto violento (luogo, tipo di arma, motivazione addotta)”. Posto in questi termini, non si vede in che cosa il monitoraggio del fenomeno -di cui si era fino a quel momento sottolineata la collocazione nella cultura maschile dominante, e quindi la sua ‘normalità’- potrà differenziarsi dalle “valutazioni del rischio nel sistema penitenziario”: “stabilire la pericolosità sociale del condannato”, “rilevare i bisogni , le carenze fisiopsichiche e le altre cause di disadattamento sociale che hanno portato alla condotta criminale”.

Non si può dire che in questo apparato così meticolosamente attento a fornire indicazioni su tutti i livelli -preventivo, protettivo, punitivo- i Centri anti-violenza siano assenti. C’è sempre un “anche” che li include, ma solo a livello di “servizi” o di “supporto tecnico”. Rivelativo, da questo punto di vista, è quello che si legge nelle “Linee guida per il soccorso e l’assistenza”:

 “Necessario istituire presso i Pronto Soccorso percorsi di cura riservati specificamente alle donne che hanno subito violenza (…) attenzione, in fase successiva, di un gruppo multidisciplinare operativo composto da personale socio-sanitario (medici, infermieri, psicologi). Il personale sanitario dà cura e sostegno alla vittima e, su esplicita indicazione della donna, vengono coinvolte le forze dell’ordine per l’avvio delle procedure di indagine per l’individuazione dell’autore della violenza. Il riconoscimento comporta l’assegnazione di luoghi di accoglienza dove vengono create le condizioni migliori per l’ascolto e al cura delle donne (…) Il personale sanitario conduce un’anamnesi accurata in condizione di riservatezza, in luogo protetto.”

L’ “anamnesi accurata”, sia pure condotta in luogo protetto dal personale sanitario, non è certo la pratica di ascolto e presa di coscienza di tutte le forme di violenza che le donne subiscono, su cui si sono mossi i Centri, e neppure l’azione educativa del rapporto tra uomini e donne che svolge da decenni il femminismo, come messa in discussione degli aspetti visibili e invisibili di una violenza che attraversa la famiglia , la vita intima, ma anche la politica e l’economia.

Persino la scelta, secondo i dettami dell’ONU e del Consiglio d’Europa, del “recupero e reinserimento degli uomini autori di violenza”, di per sé degna di attenzione, calata dall’alto e su un elenco di “servizi” eterogenei -Forze dell’Ordine, servizi socio-sanitari, ecc.- arriva agli “operatori competenti nell’ambito del privato sociale per il reinserimento delle donne (Centri anti-violenza)” nel modo più irriguardoso rispetto al fine stesso che il Piano si propone: difesa della dignità, della libertà e dell’autodeterminazione delle donne.

…protocolli, convenzioni, collaborazioni formalizzate tra i Centri di intervento per gli uomini violenti e la rete di intervento a favore delle donne (…) condivisione, concertazione dei contenuti.”

Non si può dire che i saperi, le esperienze, le consapevolezze e i cambiamenti prodotti da mezzo secolo da un femminismo che ha messo al centro il corpo, la sessualità, la maternità, l’inconscio, e l’autocoscienza come pratica di modificazione di sé e del mondo, non siano presenti, tra contraddizioni e ambiguità, in questo Piano.

Mi limito ad alcuni esempi. Nel capitolo “Punizioni”, a proposito del recupero dei maltrattanti, là dove prevale il riferimento alla Convenzione di Istanbul, si legge:

“…non patologie sociali o psicologiche, ambito in cui veniva collocata la violenza degli uomini sulle donne, ma una nuova concezione ancorata alla normalità delle relazioni tra i generi e ad un sistema di valori ‘appreso’, storicamente caratterizzati da subalternità e dipendenza del femminile dal maschile.”

La violenza sulle donne è dunque un fenomeno sociale non ascrivibile soltanto a retaggi di mentalità patriarcali per le quali le donne rivestono un ruolo ‘inferiore’, ma è anche la manifestazione della incapacità maschile di accettare e riconoscere l’autonomia e la libertà delle donne di autodeterminarsi.

Analisi e indirizzi di largo respiro, sempre mutuate dalla Convenzione di Istanbul, compaiono anche nelle Linee di indirizzo alla voce “Educazione”:

…azioni necessarie per includere nei programmi scolastici di ogni ordine e grado materiali didattici su temi quali la parità tra i sessi, i ruoli di genere non stereotipati, il reciproco rispetto, la soluzione non violenta nei conflitti in rapporti interpersonali (…) aumento della competenza relativa all’educazione all’affettività, al rispetto delle diversità, delle pari opportunità di genere e al superamento degli stereotipi.”

Ma ecco che, subito dopo, l’inclinazione del Piano verso esiti “punitivi” si manifesta in modo evidente:

…gli insegnanti ‘sentinelle’ possono avvertire i segnali di allarme del disagio e indirizzare i minori in difficoltà presso le strutture del servizio sanitario nazionale individuate per la specifica presa in carico, quali i Consultori familiari, i Dipartimenti materno-infantili, i Centri e gli sportelli anti-violenza…”.

L’impressione generale, restando sui contenuti e sulla visione di insieme del fenomeno, è che si sia tentato di tenere dentro tutto e il contrario di tutto: la centralità dello Stato, delle sue Amministrazioni, e il coinvolgimento dei soggetti non istituzionali, la necessità di azioni volte a sensibilizzare, formare, educare il personale della scuola ma anche tutti i soggetti e le “professionalità” che a vario titolo entrano in rapporto con le donne vittime di violenza, la questione della parità dei diritti, dello svantaggio femminile da colmare e la messa in discussione di una cultura che ha ingabbiato dentro stereotipi alienanti sai uomini che donne.

Difficile districarsi tra affermazioni in cui si mescolano confusamente: “rivalutazione dei saperi di genere”, “valorizzazione delle differenze”, “riconoscimento del valore dell’identità di genere per rafforzare l’autostima”, e, per un altro verso, la messa in discussione di quelle stesse “differenze” e identità, viste come pregiudizi.

Non meno ambiguo, nelle pagine dedicare alla “prevenzione”, il sollecito che viene fatto agli operatori dei media ai fini di una “rappresentazione rispettosa che eviti stereotipi di genere e visioni degradanti del femminile”. Che la parola “genere” sia stata per secoli riferita soltanto alle donne, escluse dalla polis, identificate col corpo, con la natura, e considerate perciò un tutto omogeneo, si sperava che fosse una consapevolezza scontata, così come la distorsione che ha trasformato il dominio di una comunità storica di uomini in “questione femminile”, le donne considerate un “settore sociale” svantaggiato, a cui riconoscere al medesimo tempo diritti di parità e differenze da tutelare o valorizzare, in virtù dell’ “essenziale funzione” che la Costituzione italiana attribuisce alle donne in quanto madri (Art.37).

Sui contenuti forse si può pensare che la discussione continui, ma una “governance” concepita come un immenso contenitore burocratico non è il modo migliore per attivare, in questo senso, “sinergie” tra tutti i soggetti oggi impegnati nel contrasto alla violenza maschile contro le donne.

*Scrittrice e femminista storica

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