Invece non c’è nulla di provocante in un pigiama grigio e azzurrino di flanella, in una paio di jeans e una maglietta, in una gonna al ginocchio, in un maglione. E le situazioni in cui avviene la violenza sono, come spiegano le didascalie che li accompagnano, momenti di semplice vita quotidiana, un quotidiano nel quale però la violenza è spesso un sottotesto ricorrente, che prende le forme di un controllo ossessivo, di una costante denigrazione, fino ad avvitarsi nella spirale della violenza fisica, oltre che verbale.
La mostra – realizzata in collaborazione con la Casa dei diritti e con la Rete Antiviolenza di Milano – trae ispirazione dalla poesia “What I was Wearing” (“Cosa indossavo”) di Mary Simmerling e da un’analoga installazione artistica sviluppata nel 2013 con il titolo “What Were You Wearing?” (“Cosa indossavi?”) da Mary Wyandt-Hiebert, docente alla University of Arkansas, e da Jen Brockman, direttrice del Sexual Assault Prevention Center presso la University of Kansas. È nata dal bisogno di scuotere l’attenzione del pubblico e sfatare gli stereotipi sulla violenza sessuale.
Troppo spesso infatti, la domanda “Cosa indossavi? Com’eri vestita?” sottende una sfumatura accusatoria, come a dire “te la sei un po’ cercata…”, rivolgendo i riflettori su chi subisce violenza e non su chi la agisce.
La mostra voluta da Cerchi d’acqua invita dunque – proprio grazie alla concretezza degli abiti esposti e dunque delle storie cui si riferiscono – a porsi in relazione con le donne che hanno subito violenza a partire da quel #ioticredo che D.i.Re ha scelto nel suo documento preparato per celebrare l’8 marzo.