Ad affermarlo è Antonella Veltri, presidente di D.i.Re, Donne in rete contro la violenza, la più grande rete nazionale di centri antiviolenza gestiti da organizzazioni di donne: “Parliamo di ciò che sta accadendo ai centri antiviolenza in Campania e in Lombardia, la cui sopravvivenza viene fortemente minacciata dalle recenti decisioni delle amministrazioni locali”.
In Campania a seguito della chiusura di un Centro antiviolenza le istituzioni si sono adoperate per assegnarne compiti e funzioni – come se fosse solo un problema di disegno organizzativo – a professioniste Asp.
Surrogare il centro antiviolenza, elemento portante dei processi di cambiamento sociale e culturale sul tema, con le figure ‘professionali’ – psicologhe, assistenti sociali, ecc. – della vicina struttura socio sanitaria “significa non aver compreso l’origine del fenomeno della violenza maschile alle donne, significa non riconoscere la funzione, il ruolo, la straordinaria capacità ed esperienza delle attiviste dei centri antiviolenza”, afferma Daniela Fevola, consigliera regionale D.i.Re per la Campania.
“Se bastasse una figura tecnicamente e professionalmente ‘adeguata’ e organica alla struttura socio-sanitaria perché circa 23 mila donne nell’ultimo anno si sono rivolte ai centri antiviolenza della rete D.i.Re?”, fa notare Veltri. “Alla base di questi numeri, che corrispondono a quasi la metà di tutte le donne che hanno fatto accesso a un centro antiviolenza secondo ISTAT, c’è sicuramente l’accoglienza che hanno trovato, le risposte che hanno avuto, il valore del percorso che hanno avviato con il supporto delle operatrici”.
La regione Lombardia ha escluso CADMI, Casa di accoglienza per donne maltrattate di Milano, dai finanziamenti regionali perché si rifiuta, come altri centri antiviolenza D.i.Re lombardi, di inserire il codice fiscale delle donne accolte nel sistema ORA, Osservatorio Regionale Antiviolenza. Per questo la gestione del centro antiviolenza di Corsico (MI) dal 1° gennaio è passato da CADMI alla Fondazione dei Padri Somaschi, a seguito di un bando dal quale il centro D.i.Re è stato escluso d’ufficio.
Ma il conflitto politico con la Regione “è più ampio e investe l’intero impianto dei percorsi di fuoriuscita dalla violenza. La Regione Lombardia, infatti, finanzia solo quei percorsi che prevedono l’intervento della psicologa o dell’avvocata, riducendoli alle mere prestazioni professionali per le quali è richiesto obbligatoriamente il codice fiscale”, denuncia Cristina Carelli, consigliera di D.i.Re per la Lombardia e coordinatrice di CADMI.
“Di fatto la Regione non tiene in alcun conto il progetto individuale che si costruisce nei centri antiviolenza femministi su misura e insieme alla donna accolta, e che può anche non prevedere affatto queste prestazioni perché la donna non ne ha bisogno, deve solo recuperare forza, fiducia, autostima, e avviare una vita in autonomia: quello che accade con il supporto delle operatrici e la relazione tra donne su cui si fonda la nostra metodologia”, prosegue Carelli.
“Fornire il codice fiscale delle donne accolte rappresenta un vero e proprio ricatto istituzionale che fa leva su una condizione di bisogno delle donne”, chiarisce Carelli, “e assomiglia molto alla violenza economica che subiscono le donne da parte dei maltrattanti”.
Inoltre, “poiché per la Regione contano solo i numeri delle donne di cui è stato fornito il codice fiscale, di fatto la Regione Lombardia oscura la preziosa e indispensabile attività dei centri antiviolenza D.i.Re”, denuncia ancora Carelli, “e dei centri femministi per i quali l’anonimato è una condizione imprescindibile, non solo per garantire la sicurezza delle donne accolte, ma anche perché la violenza ci riguarda tutte, non è una vicenda personale per la quale deve essere predisposto un percorso assistenziale”.
Ai venti contrari che soffiano in questo inizio anno “D.i.Re avanza la propria resistenza perché crede nella forza e nel progetto di libertà delle donne”, conclude la presidente Veltri.