Nel nostro Paese, il 70 per cento dei medici e degli infermieri sono obiettori di coscienza, ma ci sono Regioni dove l’obiezione è ancora più alta. La Calabria è al 73%, la Campania all’82%, in Puglia gli obiettori di coscienza sono l’86% del totale, in Sicilia siamo all’87,6 % e nel Lazio l’80%. In Basilicata siamo arrivati al 90 % di obiettori e in Molise al 93,3% , in quella Regione sono solo due i medici che applicano la legge 194 e praticano l’interruzione volontaria della gravidanza.
Il dato più impressionante è che, se si escludono la Valle D’Aosta che è al 13, 3 % e la Sardegna che è al 49,7%, tutte le Regioni sono sopra il 50% di obiettori.
Praticare l’interruzione di gravidanza è quindi diventato per le donne italiane un percorso ad ostacoli e contro il tempo, con l’eventualità di percorrere anche 800 chilometri per trovare una struttura pubblica dove abortire. Per questo motivo l’Italia è già stata condannata da tempo dalla Corte europea dei diritti umani per la mancata piena attuazione della legge 194 Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, una legge che nasce nel 1978 per consentire anche alle donne più indigenti di poter essere accolte in una struttura sanitaria pubblica e abortire senza correre rischi. Una legge che ha consentito una diminuzione drastica degli aborti nel suo trentennio di vita e ancora oggi tutela, pur se sempre più a fatica, migliaia di donne, per 2/3 italiane e 1/3 straniere.
In questo quadro già complicato da una faticosa applicazione della legge, è intervenuto un pacchetto di norme contenute nel decreto legislativo sulle depenalizzazioni, varato dal Consiglio dei Ministri il 15 gennaio scorso. Le nuove norme contemplano un inasprimento della multa per il reato di aborto clandestino che prevede, per la donna che ricorre all’ ivg entro i 90 gg, una multa fra i 5 mila e i 10 mila euro, snaturando la sanzione puramente simbolica prevista dal precedente articolo 19 della legge 194, che consisteva in sole 51 euro; lo stesso decreto prevede la cancellazione del reato penale per chi abortisce oltre i 90 giorni di gravidanza. Sembrerebbe dunque che il Governo si preoccupi di disincentivare gli aborti clandestini… peccato che in merito non vi è alcuna attenzione reale, dato che il quadro è fermo all’ultima indagine ministeriale di dieci anni fa e la cosa importante è sperimentare, sulla pelle delle donne, nuove misure punitive.
Invece di promuovere campagne di sensibilizzazione e, soprattutto, rendere più accessibile l’aborto farmacologico in regime di day hospital o possibile nei consultori familiari e nei poliambulatori – la RU486 viene utilizzata in uno scarso 10% negli ospedali, perché i costi di tre giorni di ricovero, previsti solo nel nostro Paese, sono altissimi – il Governo è intervenuto, ancora una volta, in un’ottica non funzionale ed esclusivamente moralistica, ignorando completamente le ragioni per cui la legge 194 comminava una multa simbolica, ovvero permettere alle donne di denunciare i cucchiai d’oro che praticavano aborti fuori dalla struttura pubblica ma, soprattutto, permettere loro di andare in ospedale al primo segno di complicazione e salvarsi la vita.
Per quanto riguarda le straniere “si tratta di un vero e proprio caso di incitamento all’aborto clandestino – afferma senza mezzi termini Lisa Canitano, ginecologa presidente di Vitadidonna – In Italia abbiamo il Stp, che significa ‘straniero temporaneamente presente’ che permette a tutti, anche privi di documenti, di essere assistiti nelle strutture pubbliche senza essere segnalati, ma questo non riguarda chi proviene da un altro paese europeo, che ha una tessera sanitaria europea valida ovunque nell’Unione. Le donne rumene, però, non hanno questa tessera, perché il loro Governo non gliela fornisce. Di conseguenza non possono usufruire né dell’Stp né dell’assistenza per i cittadini europei.
Per metterle in sicurezza è stata prevista la categoria dell’europeo non iscritto e una tessera speciale che si chiama Eni. Ma molte regioni non la riconoscono, neppure Emilia, Toscana o Lombardia. Quindi le donne rumene possono abortire in ospedale, ma pagando 1.200 euro. E’ dunque ovvio che ricorrano piuttosto a un medico privato che pratichi loro l’aborto a meno della metà. E poi se hanno complicazioni, se gli viene la febbre a 40, stanno a casa sperando che gli passi. Anche le donne nigeriane fanno molti aborti clandestini. Fra loro ci sono prostitute cui gli sfruttatori danno i farmaci che inducono l’aborto. Quando stanno male e arrivano in ospedale magari hanno otto compresse abortive in vagina”.
Si tratta di un altro passo concreto verso l’eliminazione dei diritti fondamentali dei e delle migranti. Anche se il Governo, stavolta, voleva agire democraticamente: togliere a tutte – italiane e migranti – la possibilità di decidere della propria maternità.
Roma 9 febbraio 2016