Perché le donne che subiscono violenza continuano a non essere credute nelle aule dei tribunali?

Perché nelle sentenze i/le giudici continuano a comminare pene miti o decretare assoluzioni degli imputati di violenza contro le donne sulla base di un giudizio di disvalore nei confronti della vittima, spesso dopo aver consentito che sia sottoposta a estenuanti interrogatori in cui la sua vita privata viene passata sotto la lente di ingrandimento, per stabilire infine che in qualche modo “se l’è cercata”, è stata lei a “provocare”, a scatenare nell’imputato quella “soverchiante tempesta emotiva” che lo ha reso – temporaneamente, certo – incapace di controllarsi?

È per rispondere a questa domanda che Magistratura Democratica, la rivista Questione Giustizia e D.i.Re-Donne in rete contro la violenza hanno organizzato un ciclo di incontri di formazione per avvocati/e e magistrati/e dal titolo “Le parole giuste. Violenza di genere e linguaggio giuridico”che il 28 giugno ha fatto tappa a Cosenza dopo un primo appuntamento a Firenze il 14 giugno e un incontro programmato per il prossimo settembre a Torino.

“L’imparzialità, come ha detto nel suo intervento la giudice Paola Di Nicola, è un processo culturale”, commenta l’avvocata Marina Pasqua, referente delle avvocate del Centro antiviolenza Roberta Lanzino di Cosenza e componente del Gruppo avvocate di D.i.Re, che era seduta tra il pubblico dopo essere stata una delle relatrici nel precedente incontro di Firenze. “In un confronto davvero aperto, con una magistratura sinceramente disponibile a mettersi in discussione, la rosa di interventi che si sono succeduti ha provato a fare luce sugli snodi dove tale processo culturale si incaglia”.

Il riferimento– ricordato anche in apertura dal giudice Emilio Sirianni, segretario di MD Catanzaro – è “alle recenti sentenze di Bologna con la ‘soverchiante tempesta emotiva’, di Ancona con la ‘vittima mascolina e scaltra’ e di Genova con la donna accusata di aver ‘illuso e disilluso’ il reo”, prosegue Pasqua. “È bastato spostare lo sguardo dalla pena alla donna per rendersi conto che siffatte sentenze da un lato si nutrono e dall’altro contribuiscono, proprio per la scelta delle parole usate, a una normalizzazione della violenza come fatto socialmente accettabile”.

“È evidente che tali verdetti risentono di un eccessivo tecnicismo che fa sì che non si ponga la dovuta attenzione a motivare le sentenze senza traghettare stereotipi che le rendono equivoche e di fatto disconoscono la violenza che le donne hanno patito e denunciato”, sottolinea Roberta Attanasio, Delegata del Centro antiviolenza Roberta Lanzino e avvocata. “Per questo giornate di formazione come questa, così stimolanti sia per gli/le avvocati/e che per i/le giudici, sono fondamentali”.

Concorda Elena Biaggioni, una delle coordinatrici del Gruppo avvocate di D.i.Re, penalista, evidenziando come “è stata messa in campo una lettura davvero trasversale per cui la pratica giuridica ha smesso di essere una cosa astratta, con riflessioni che investivano sia il livello applicativo, pratico, dei singoli casi sia la dimensione culturale del singolo operatore della giustizia, riportando la pratica giuridica nel vivo della società”.

Ne è emersa “una suggestione importante sul rapporto tra prospettiva femminista e amministrazione della giustizia”, fa notare Pasqua, “perché non dobbiamo dimenticare che accanto a sentenze che possiamo tranquillamente definire orribili, come appunto quelle di Bologna, Ancona e Genova, da oltre 30 anni le avvocate dei centri antiviolenza sono riuscite a ottenere sentenze che hanno contribuito al riconoscimento della violenza come fenomeno sociale e hanno fatto della pratica giuridica uno strumento politico di avanzamento dei diritti delle donne”.

“Ma non siamo ancora riuscite a fare una riflessione compiuta su tutto questo”, aggiunge Pasqua, “perché, come ha giustamente sottolineato la giornalista femminista Ida Dominijanni nel suo intervento, dobbiamo ancora lavorare sulla credibilità femminile, dobbiamo ‘dare autorizzazione alla parola dell’altra’, per citare le sue parole, per contrastare e prevenire una violenza maschile contro le donne che altro non è che un modo per impedire alle donne di parlare”.

“Di parlare, ovvero di denunciare”, precisa Attanasio, “perché le aule dei tribunali continuano a essere luoghi ostili alle donne, respingenti, scoraggianti, salvo in quelle Procure che hanno una sezione dedicata con magistrati stabili. Mentre in contesti più periferici, come Cosenza, dove ci sono continui trasferimenti di magistrati, dobbiamo ancora contare sulla sensibilità del singolo giudice. In tutti questi anni non si è di fatto consolidata una prassi uniforme di trattamento dei casi e di ascolto delle donne vittime di violenza”.

“Per questo torniamo a quanto D.i.Re ribadisce in ogni occasione: c’è bisogno di formazione, una formazione che tenga insieme magistratura e avvocati/e, compresi gli avvocati degli imputati, che in taluni casi finiscono davvero per essere correi. Con questo ciclo di seminari realizzati su invito di Magistratura Democratica abbiamo provato a dare un contributo in tal senso, ma indubbiamente siamo solo all’inizio”, conclude Biaggioni.