Scuola di politica –Darsi Parola
La politica dei Centri Antiviolenza D.i.Re
Terzo Seminario, L’Aquila 17, 18 e 19 giugno 2016
GRUPPO 4
Donne migranti nei centri contro la violenza: come la relazione ha prodotto cambiamenti
Traccia di lavoro e discussione a cura di:
Serena Corsi
Edith Bendicente
Mina Tmane
Tra i tanti cambiamenti che hanno attraversato i Centri nel corso della loro storia, uno, certamente, si pone in evidenza per la sua importanza: l’arrivo e l’aumento progressivo nel tempo delle donne migranti. Per alcune delle nostre associazioni il tema della “presenza mista” e dell’interculturalità è stato un presupposto statutario; per altre la costruzione di contesti appositamente dedicati allo scambio, incontro, accoglienza tra native e migranti è stato, invece, un portato derivato dal riconoscimento della centralità di questa peculiare relazione tra donne; per altre ancora, il luogo dell’incontro è rimasto il servizio dedicato alle donne che subiscono violenza.
In questa fase di rielaborazione, di bilanci e riflessione critica e autocritica, riteniamo sia opportuno puntare il nostro sguardo anche su questo tema delle relazioni tra donne native e migranti all’interno dei nostri contesti. Ovviamente, ogni associazione potrà svolgere la sua analisi a partire dal proprio posizionamento, dalla più o meno forte presenza di questa tipologia di relazione all’interno del proprio territorio.
Ci sono tre macro-temi, naturalmente interconnessi tra di loro, che ci pare possano costituire una buona base per iniziare a costruire un pensiero il più possibile condiviso a partire da queste esperienze.
Sono il tema dell’autodefinizione/ dicotomia Native Migranti; il tema della metodologia nell’accoglienza di donne migranti; il tema della relazione tra noi, donne native e migranti all’interno delle nostre associazioni.
1)La questione dell’autodefinizione Native/Migranti. Nel Forum Nazionale di Torino del 1996 e poi negli incontri della Rete “Punto di Partenza” a Empoli nel 2002 si era adottata questa definizione che tenesse dentro il riconoscimento di parità di sguardo tra native e migranti, ma che riconoscesse accanto alla comune appartenenza al genere femminile il peso delle disparità derivanti da un differente status giuridico, economico, “razziale”. Si prendeva così coscienza del nesso tra l’asimmetria esistente nelle macrorelazioni , quelle tra i paesi del primo mondo e gli altri paesi, e l’asimmetria che emerge nelle microrelazioni, tra operatrice nativa e donna accolta migrante. dalla mia, per poter insieme, in quel processo che si dà in una relazione di fiducia, ridisegnare mappe, possibilmente connotate da un differente livello di condivisione.
Oggi, a vent’anni dal suo conio, questa autodefinizione ha ancora un senso? Quali aspetti della realtà e della relazione tra di noi la mettono in discussione, quali invece la confermano? In che misura rende conto di differenze ancora attuali, quanto ci sembra invece che ostacoli una nuova lettura dell’attualità?
2) La questione della metodologia nell’accoglienza a donne migranti: . Nell’accogliere donne migranti nei nostri centri può essere stato piuttosto naturale che, almeno inizialmente, i presupposti e la metodologia siano stati gli stessi che si davano nell’accoglienza a donne italiane.
Con l’evolversi di queste esperienze però può essere accaduto che alcuni pezzi della nostra filosofia di partenza, e quindi la prassi, siano state interrogate, modificate, stratificate; difficilmente però ci si è prese il tempo, o ci si è riconosciuta l’autorevolezza per provare a sintetizzare nuovi pezzi di metodologia a partire da queste esperienze, primo passo che ora ci pare ineludibile.
Ad esempio quali contaminazioni, cambiamenti, riconfigurazioni sono derivati dalla presenza massiccia tra native e migranti nei nostri Centri?
Laddove esistono progetti pensati specificatamente per donne migranti , quanto spazio di espressione libera della/delle differenze e dei punti di vista è stato offerto? Quanto invece si è , in maniera più o meno esplicita, sollecitato un processo di assimilazione alle native?
Come incidono i non detti rispetto a spiritualità/fede/religione/sessualità nell’ampiezza delle relazioni tra noi e con le donne migranti? Ovvero, quanto si riduce la nostra capacità di relazione in presenza di questi non detti/tabù?
Altre questioni riguardano in maniera più puntuale il punto di vista delle operatrici migranti: Quali strategie esse mettono in campo per garantirsi un equilibrio tra le molteplici aspettative in cui si muovono (le aspettative proprie e quelle delle colleghe native, le aspettative del contesto e quelle della comunità d’origine, le aspettative delle donne accolte)? Quale rapporto c’è tra il proprio personale percorso d’integrazione e quello che si vorrebbe rendere percorribile alle donne migranti accolte nei centri?
3) Le relazioni tra di noi, all’interno delle nostre Associazioni: In alcune associazioni le migranti rivestono un ruolo alla pari con le native come operatrici del Centro antiviolenza; in altre le migranti hanno condiviso la progettazione di luoghi di accoglienza dedicati in maniera specifica alle donne migranti e ne continuano a condividere la gestione; in altre la relazione tra native e migranti si dà soltanto nello spazio dell’accoglienza e dell’ospitalità. Qualunque sia stata la cornice di questa relazione/ contaminazione, negli anni essa ha certamente incontrato degli snodi sui quali ci sembra utile che ogni associazione si interroghi al proprio interno:
Che rapporto c’è tra l’espressione delle differenze culturali nei diversi luoghi delle nostre associazioni? La contaminazione che si vive nei progetti specifici di accoglienza di donne migranti produce un immediato travaso negli altri spazi/progetti delle nostre associazioni? In che quantità l’accesso ai luoghi di rappresentanza delle nostre associazioni è stato garantito alle operatrici migranti?
In che modo lo spiazzamento introdotto dalla relazione con donne migranti-sia le operatrici che le donne accolte- ha “spostato” le operatrici native rispetto alla loro percezione del mondo e della società? In che modo questi spostamenti si riverberano nella vita quotidiana, nell'”aldifuori” del lavoro nei Centri?
Quali ostacoli hanno incontrato le operatrici migranti nell’offrire un immaginario di libertà e di liberazione della donna differente da quello che appartiene storicamente ai Centri?
L’esperienza da operatrici in un Centro come ha modificato la visione di sé come donna, e di sé come donna? Il contatto con le operatrici native cosa ha fatto emergere rispetto alla loro cultura d’origine?Con quale ricaduta sul loro quotidiano, nell'”aldifuori” del lavoro nei Centri?
Da analisi autoriflessive di questo tipo ci piacerebbe partire nella Scuola di Politica dell’Aquila rispetto alla questione “migrazione femminile”: ri-praticare “il partire da sé” per dar voce a un pezzo della nostra storia e alla nostra esperienza di luoghi di donne ci sembra l’incipit più sicuro per non perdere di vista eventuali “metamorfosi”, spostamenti e nuovi radicamenti in questa fase di ri-lettura della nostra complessità; ci sembra, inoltre, un atto di fedeltà a noi stesse rispetto ad una modalità di costruzione di analisi e narrazioni politiche, di costruzione e progettazioni di eventuali azioni future.