Scuola di politica –Darsi Parola

La politica dei Centri Antiviolenza D.i.Re

Terzo Seminario, L’Aquila 17, 18 e 19 giugno 2016

GRUPPO 3

Metodologia come tratto specifico della nostra differenza

Traccia di lavoro e discussione a cura di:

Carmen Bosco
Caterina Perego
Concetta Gentili
Daniela Fevola
Daniela Lucatti
Elena Biaggioni
Emanuela Bove
Ethel Carri
Francesca Scardi
Lucia Ferilli
Luisanna Porcu
Sara Di Giovanni
Simona Scalzi

Operare in un Centro Antiviolenza, in qualsiasi veste lo si faccia, vuol dire prendere parte ad un progetto e “vivere un luogo” dove co – costruire, con altre donne, l’analisi storico politica della violenza, assumendo sempre maggiore consapevolezza che questa altro non è se non una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi. Le donne (ha in quest’ottica senso parlare di operatrici, psicologhe ed avvocate?) di un CAV vivono e condividono una quotidiana pratica trasformativa, che nasce dalla relazione tra donne, partendo da una profonda riflessione su se stesse e lavorando non per un cambiamento del sé, ma per una realizzazione di sé di ciascuna donna; ogni donna non viene (e non può essere) vista e vissuta come “malata” e “vittima”, ma come “in temporanea difficoltà” e “vittimizzata” da un contesto sociale e culturale dove sopravvivono e resistono modelli patriarcali, familisti, e culturalmente tanto distorti quanto radicati e persistenti, che di fatto limitano l’autodeterminazione e l’autorealizzazione, non di una sola donna, ma di tutte le donne.
Ecco perché, prima di parlare di avvocate o psicologhe, è bene parlare di operatrici, perché le “donne che operano” in un CAV sono tutte operatrici, al di là delle singole professionalità, e, prima di intraprendere la grande avventura del co – costruire, devono de – costruire sé stesse, spogliandosi della propria veste professionale per restare, nella propria ritrovata e sincera nudità, quello che davvero all’essenza sono: donne.
E’ per questo che le prime domande che in questa terza sessione della scuola di politica riguardano il ruolo dell’operatrice, perché se non si è operatrice, all’interno di un CAV, non si può operare, perché non si è in grado di lasciare fuori della porta quell’aura professionale di distacco e distanza, non si è in grado di “lasciarsi attraversare” dalle storie delle donne, e le si guarderà da lontano giudicando e non accogliendo.
In D.i.re siamo, oramai, tante, tanti Centri si sono uniti a noi anche dopo le prime due sessioni della Scuola di politica e, dunque, non appaia peregrino e ripetitivo porci alcune domande fondamentali, la cui funzione è quella di riaprire una riflessione importante per confrontare le differenze e giungere ad un linguaggio comune che possa trasformare, queste stesse differenze, in ricchezza.

Chiediamoci:

Chi è l’operatrice del centro? E’ sempre chiaro il suo ruolo?
E’ realmente simmetrica la relazione tra l’ operatrice e la donna che viene accolta al centro?
Nella co-costruzione del progetto individualizzato la donna è realmente protagonista delle proprie scelte?
Come si sviluppa il  lavoro politico dell’operatrice?
Come l’operatrice partecipa alla produzione di saperi che contagiano la società tutta e trasformano la violenza maschile contro le donne da fatto di rilevanza meramente privata a fatto di rilevanza pubblica?
Esistono momenti di incontro tra le “operatrici consulenti” (avvocate e psicologhe) e le operatrici dell’accoglienza, e quali sono le modalità di scambio delle informazioni?
Come sviluppare un “linguaggio comune” (formazione integrata, conduzione dei colloqui…)?
Esiste e come si declina la deontologia delle operatrici di un CAV?

È noto a tutte la forte resistenza a parlare di psicologia e psicoterapia all’interno dei centri, nonostante, oggi, moltissime operatrici siano psicologhe. Questo crea fraintendimenti, confusione e un grandissimo malessere in molte di noi, ed una limitazione alla libera espressione di opinione e delle potenzialità delle psicologhe. Se prima non diamo legittimità di parola senza giudizio non sarà possibile creare prassi trasparenti e condivise:

Quali caratteristiche dovrebbe avere una psicologa che opera all’interno dei centri AV? (pratica femminista, esperienza all’interno dei centri, titolo di psicoterapeuta.…)
Quali sono i criteri usati dalle psicologhe dei centri trasversali a tutti gli approcci in campo, e quali imprenscindibili per una pratica femminista?
Esiste una letteratura specializzata in merito?
Quale spazio per la psicologia all’interno dei centri?
E’ possibile comprendere accogliere e sostenere senza diagnosticare?
Qual è la specificità delle psicologhe del centri – e quali sono i contributi e gli approcci terapeutici?
Quali sono i possibili contributi che una psicologa può dare all’interno di un CAV al di là dello specifico sostegno psicologico? (partecipazione alle CTU, riflessione aiuto nell’elaborazione dell’impatto emotivo che la violenza produce sulle operatrici…)
Come il rapporto tra le psicologhe dei centri e le psicologhe esterne ai centri può diventare un nodo politico fondamentale?
E’ possibile coniugare la libertà professionale con la scelta politica?

Anche per le avvocate sono molte le domande che si pongono. Certamente, l’avvocata è da sempre parte dei CAV, perché la difesa nei contesti di giustizia viene sentita come aspetto quasi imprescindibile dei percorsi delle donne. Ma, le avvocate, sono anche le figure professionali maggiormente “strutturate”, perchè, per ciclo di studi, modalità dell’esercizio professionale quotidiano, linguaggio, etc…hanno acquisito una sorta di “strutturazione” riconoscibile a distanza, e, dunque, sono le figure professionali che, nell’operatività dei CAV, possono suscitare grandi perplessità. Molte, infatti, sono le questioni che si pongono, a partire dalle caratteristiche personali e professionali che le avvocate debbano avere per operare in un CAV (l’essere femminista, essere iscritta negli elenchi dei patrocinatori a spese dello stato, avere fatto esperienza dell’operatività del centro, aver seguito un corso di formazione per operatrici….), alle modalità ed ai tempi dell’intervento legale, alla gratuità delle consulenze, ai rapporti con gli Ordini Professionali, alla deontologia “rafforzata” che le avvocate dei CAV devono avere, proprio in virtù del loro specifico essere operatrici dei CAV.

Anche per le avvocate è, dunque, importante porsi alcune domande chiave:

Quali sono le caratteristiche e specicificità dell’avvocata di un CAV (Vincoli e precondizioni)?
Come, dove e quando interviene l’avvocata? (il colloquio d’emergenza e la programmazione del percorso)
Come si conciliano la relazione simmetrica tra donne e la corretta distanza professionale necessaria all’esercizio della difesa (autorevolezza, competenza professionale specifica, stretta correlazione tra il percorso di uscita dalla violenza e la scelta delle azioni legali per il miglior vantaggio della donna e della sua libertà)?
Come il percorso legale può diventare un concreto elemento di empowerment per le donne?
Che relazioni ci sono tra l’avvocata e l’equipe del CAV?
Quali sono le principali questioni deontologiche dentro e fuori del CAV? Può parlarsi di deontologia rafforzata per le avvocate dei CAV? (i rapporti con le “assistite”, con i colleghi, con gli Ordini, la difesa degli uomini maltrattanti)

Come  l’esperienza e la pratica maturate nei CAV dalle avvocate può spostare e incidere, sia nelle scelte legislative sia nella concreta applicazione del diritto vigente, e quali relazioni e iniziative devono accompagnare tale penetrazione della pratica e politica femminista nella cultura giuridica italiana ?