Lella Palladino*
La speranza che quanto meno per l’8 marzo il Governo riuscisse finalmente a presentare il Piano Nazionale Antiviolenza, è venuta meno.
Dopo un percorso di confronto lungo, poco lineare, discontinuo e a tratti frustante per il continuo cambio delle interlocutrici, le politiche istituzionali di prevenzione e contrasto della violenza maschile contro le donne sono ancora prive di un quadro di orientamento strutturale e sistemico che consenta di superare la logica degli interventi emergenziali e straordinari. Eppure tanto è stato detto e tanto è stato scritto, molti documenti hanno circolato e la nostra presenza insieme a quella di altre associazioni interessate nei 7 Tavoli interministeriali della Task Force, così come nel Tavolo tecnico della Conferenza Stato Regioni per discutere dei requisiti minimi dei centri antiviolenza e delle case rifugio non definiti dalla Legge 119/2013 (cosiddetta Femminicidio), non ha prodotto risultati omogenei.
Alcune delle nostre istanze sono state accolte, in qualche caso il linguaggio adottato e l’impianto culturale sono stati contaminati dall’apporto delle diverse esperte coinvolte, le metodologie, le buone prassi e le indicazioni operative provenienti dall’esperienza dei centri antiviolenza sono state recepite. Nei 7 tavoli di lavoro la concertazione è stata condotta con modalità differenti che hanno risentito molto dell’ impostazione data da chi aveva il compito di coordinarli. Non a caso grosse criticità si sono evidenziate nel tavolo per la redazione delle Linee guida Codice Rosa nelle quali non si prevede un percorso centrato sulla donna, nel modello di rete presentato viene privilegiato il ruolo delle istituzioni e depotenziato così l’approccio culturale di genere, l’impostazione securitaria ed emergenziale che le anima e per la quale la violenza contro le donne anche in ambito domestico viene definita e pertanto conseguentemente affrontata come una questione di sicurezza e di ordine pubblico, risulta inaccettabile ed oltremodo lontana dal quadro normativo attuale.
Sono state molte le questioni poste e i nodi operativi affrontati su tutti i tavoli, sull’asse della prevenzione nei tavolo educazione, formazione, comunicazione, sulla valutazione del rischio, sulla raccolta dati e sulla complessa area dell’inserimento delle vittime e del recupero dei maltrattanti. Alcune dimensioni culturali importanti quali l’interpretazione del problema della violenza come violazione dei diritti umani, la discriminazione multipla, la lettura delle vittime non come tali ma come sopravvissute e potenziali agenti di cambiamento hanno incontrato il sostegno trasversale delle diverse referenti ministeriali, ma permane il problema delle reti territoriali e dell’approccio integrato, nel quali i Centri antiviolenza possano svolgere un piano di regia, delle differenze tra le diverse regioni, tra i centri e le periferie, così come il grande nodo dell’autodeterminazione della donna e del rispetto dei suoi tempi e delle sue scelte relativamente alla prescrittibilità delle denunce.
In Conferenza Stato Regioni è stato molto difficile contrastare un documento di definizione dei centri e delle case rifugio che nella sua prima versione azzerava la nostra storia non riconoscendo la cornice culturale della Convenzione di Istanbul negando la centralità della relazione tra donne come metodologia di lavoro, ponendo sullo stesso piano centri delle donne e centri istituzionali e prevedendo la presenza di personale maschile.
Qualche passo in avanti è stato fatto e ora chi avrà il compito di tirare le fila per la stesura definitiva del Piano Nazionale, che speriamo ci sia dato in visione quanto prima, dovrà porre molta attenzione nel riconoscere un ruolo strategico ai centri antiviolenza per la molteplicità delle azioni che promuovono, per la cultura di cui sono portatori, per il lavoro fatto in questi anni nel riconoscimento della violenza maschile contro le donne e nel suo contrasto.