La Rete nazionale dei Centri antiviolenza D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza, esprime la preoccupazione che la riforma del codice penale, pur riflettendo una volontà deflattiva del legislatore allo scopo di eliminare contenzioso e ridurre il carico di lavoro dei Tribunali, sia applicata ai casi di violenza di genere come definiti dalla Convenzione di Istanbul: reati commessi nei confronti delle donne in quanto tali, o che colpiscono in modo sproporzionato le donne. La Convenzione di Istanbul infatti sancisce chiaramente all’art. 48 il divieto di metodi alternativi di risoluzione dei conflitti o di misure alternative alle pene obbligatorie.
La stessa Convenzione di Istanbul prevede all’art. 45 che “i reati stabiliti conformemente alla presente Convenzione siano puniti con sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive”.
La stessa direttiva vittime 2012/29/EU agli artt. 12 e 22 impone particolare cautela nei casi di giustizia riparativa in ipotesi di violenza di genere. A fronte dell’alto rischio di vittimizzazione secondaria, intimidazione e ritorsioni, devono essere presi in considerazione sufficienti fattori di protezione e la volontà della vittima deve essere sempre prioritaria.
Il reato di “atti persecutori” è stato introdotto nel codice penale (con d.l 23.02.2009 n.11) per riconoscere la rilevanza di condotte altamente lesive della libertà, serenità e sicurezza delle persone e prevalentemente delle donne, perché un sistema che non fosse in grado di riconoscere la capacità lesiva della persecuzione ossessiva, che può annientare l’esistenza di una persona, è un sistema sordo, cieco e culturalmente arretrato.
Esistono però ipotesi di stalking pacificamente perseguibili a querela e rimettibili. E’ dunque all’ipotesi “semplice” del reato di atti persecutori che con la riforma del codice penale è applicabile la nuova causa di estinzione del reato.
Attraverso la previsione del nuovo art 162 ter c.p. il legislatore, nell’intento deflattivo di cui si è detto, ha scelto il criterio di limitare la possibilità della condotta riparativa, ai reati che realizzano una offesa ai soli interessi individuali nella disponibilità del titolare del bene giuridico leso, ritenendo questi, proprio i reati procedibili a querela “rimettibile”. E quindi all’ipotesi “semplice” del reato di atti persecutori è applicabile la nuova causa di estinzione del reato. E va evidenziato che le parti, compresa la persona offesa, sono sentite. In caso di dissenso della persona offesa il Giudice può procedere solo SE riconosce la congruità della riparazione.
Il dibattito che ha preceduto e seguito la previsione normativa dello stalking si è concentrato sulla scelta di ritenerlo procedibile a querela della persona offesa e sulla possibilità di rimessione della stessa. Questo deriva dall’esigenza di lasciare libere le donne di valutare se la strada giudiziale possa essere la migliore, e non già dal considerare lo stalking un reato che coinvolge interessi strettamente individuali, né di sottovalutare il pubblico interesse a reprimere condotte tanto lesive di beni e valori fondamentali. Anzi: considerare il reato di “atti persecutori” un reato che coinvolge solo interessi individuali non era accettabile allora e non lo è adesso, ma è prevalsa la massima valorizzazione della libertà delle donne. Infatti, quando le donne scelgono di denunciare, sollecitate a farlo anche da messaggi provenienti dalla politica, il principale interesse che le muove non è certamente quello di ottenere il risarcimento del danno patito ma quello di far cessare al più presto la persecuzione che stanno subendo e vedere riconosciuta, attraverso il giudizio, la pericolosità della condotta denunciata e il diritto di vivere libere da questi comportamenti ossessivi che ne limitano le scelte di vita.
Una norma come quella dell’art. 162 ter c.p., di recente approvata, che affida al Giudice, anche nei giudizi per stalking, la valutazione della congruità dell’offerta “riparativa” e la conseguente determinazione di estinzione del reato, ignora l’interesse privato e quello pubblico ma soprattutto ignora la sicurezza delle donne che il sistema giudiziario tende troppo spesso a rivittimizzare, riproponendo quella condizione di vittimizzazione secondaria che la Convenzione di Istanbul ha inteso evitare.
In estrema sintesi: la cosiddetta “Riforma Orlando” ha introdotto nel nostro ordinamento uno strumento di giustizia riparativa. Per alcuni reati è/sarà possibile che l’indagato risarcisca o ripari il danno cagionato, con conseguente estinzione del reato.
Questo meccanismo risulterebbe applicabile anche ai casi di stalking apparentemente meno gravi (procedibili a querela, gli stessi per cui si può richiedere l’ammonimento da parte del Questore).
L’ipotesi ventilata di estendere la procedibilità per questi reati (nel caso dello stalking è graduata, dalla procedibilità a querela a quella d’ufficio, in base alla gravità delle condotte) a nostro parere non coglie il vero nodo del problema.
Il nodo dell’intera discussione, a nostro parere, non è la procedibilità del reato di stalking, quanto l’assenza nel nostro ordinamento di una norma che – in ossequio al disposto dell’art. 48 della Convenzione di Istanbul – vieti il ricorso a metodi alternativi di risoluzione dei conflitti tra cui la mediazione e la conciliazione nei casi di violenza di genere. Una semplice clausola di esclusione risolverebbe alla radice il problema.
Pertanto ci aspettiamo da uno Stato coerente non la modifica per rendere procedibile d’ufficio il reato di atti persecutori, ma l’esclusione della applicabilità dell’art.162 ter c.p. al reato di atti persecutori e in ogni caso l’esclusione di ogni forma alternativa o riparativa per la definizione di giudizi che vedono le donne vittime della violenza da parte degli uomini, come sancito dalla Convenzione di Istanbul.